L’unione fa la forza. Alla fine, devono averlo pensato anche alla NASA, considerando la nuova iniziativa che prevede l’istituzione di un gruppo multidisciplinare impegnato nella ricerca della vita extraterrestre. L’insolita collaborazione vedrà lavorare, gli uni accanto agli altri, gli scienziati che studiano la Terra, quelli che analizzano i pianeti del sistema solare e coloro che vanno a caccia di mondi alieni sparsi per la galassia.
Il progetto si chiama NExSS, acronimo di Nexus for Exoplanet System Science: gli esperti che ne faranno parte cercheranno, insieme, di capire come la vita si possa sviluppare. Per farlo, dovranno comprendere i meccanismi che hanno funzionato qui, sul nostro pianeta, valutare le condizioni presenti in quelli più vicini a noi e usare le nuove conoscenze per sapere se gli esopianeti appena scoperti possano essere abitabili– se non addirittura abitati.
Le future missioni– a partire dal lancio del TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) nel 2017 e del James Webb Space Telescope l’anno successivo- saranno calibrate anche sulla base delle osservazioni del nuovo gruppo di studio. “Questo sforzo interdisciplinare collega i principali centri di ricerca e permette un approccio di sintesi nell’ individuare i pianeti potenzialmente più adatti alla vita”, ha infatti spiegato in un comunicato Jim Green, direttore del dipartimento di Scienze Planetarie della NASA. “La caccia ai mondi alieni non è una priorità soltanto per gli astronomi, è di grande interesse anche per chi si occupa di clima e di sistemi planetari”.
Lo studio degli esopianeti è una disciplina piuttosto recente: è nata ufficialmente negli anni ’90. Tra i primi ad essere trovati in orbita attorno ad una stella simile al nostro sole, c’è 51 Pegasi b, scoperto nel 1995. Da allora, ne sono stati avvistati centinaia. Il NExSS riunirà geologi, biologi, astrofisici, eliofisici, astronomi di 10 diverse università e di due istituti scientifici (tra cui il SETI) per individuare con certezza i pianeti alieni in grado di supportare la vita e -una volta avuta la conferma- verificare se presentano segni di attività biologica.
Lo scopo di questa collaborazione, insomma, è dare risposta alla fatidica domanda: siamo soli nell’Universo? Un interrogativo sempre più pressante, alla luce delle sorprese che il cosmo ogni giorno ci riserva. Tanto più ora che, per la prima volta, siamo in grado di osservare direttamente i mondi extrasolari grazie ad una nuova tecnica che permette di individuare il loro spettro nella luce visibile. Proprio 51 Pegasi b ha confermato che il metodo funziona.
L’esopianeta si trova nella costellazione di Pegaso, a 50 anni luce da noi, ed è un cosiddetto “Giove bollente”, una tipologia planetaria piuttosto comune, di dimensioni e massa simili al nostro gigante gassoso, ma con un’orbita molto ravvicinata rispetto alla stella ospite. Ad osservarlo, con questo sistema innovativo, è stato un team guidato da Jorge Martins, che si sta specializzando all’ESO ( l’European Southern Observatory) in Cile. Per questo studio è stato utilizzato il telescopio dell’Osservatorio di La Silla.
“Questa tecnica di individuazione è di importanza scientifica notevole, perché ci permette di misurare la massa e l’inclinazione orbitale del pianeta, essenziale per comprendere pienamente il sistema solare”, ha spiegato Martins. “Ci consente inoltre di valutare la sua albedo, elemento che può essere utilizzato per ricavare la composizione della superficie e dell’ atmosfera”.
I dati ricavati da questa analisi hanno stabilito che 51 Pegasi b ha una massa pari alla metà di quella gioviana e un’orbita inclinata di 9 gradi in direzione della Terra. Appare però più grande di Giove- ha un diametro superiore- e maggiormente riflettente. Caratteristiche che si adattano perfettamente ad un “Giove bollente”, molto prossimo alla sua stella e pertanto particolarmente illuminato.
L’elemento più interessante è che questa osservazione diretta è stata possibile grazie ad un’ottica relativamente ridotta- il telescopio di La Silla ha uno specchio di 3,6 metri. Ma in programma c’è l’utilizzo di telescopi molto più potenti e tecnologicamente più avanzati, come il Very Large Telescope (detto anche VLT), già in funzione sul Cerro Paranal, e l’European Extremely Large Telescope (ovvero, l’E-ELT), di prossima costruzione sempre nel deserto di Atacama.
“Non vediamo l’ora di ricevere le prime informazioni dallo spettrografo del Very Large Telescope, per poter studiare nel dettaglio questo e altri sistemi solari”, è stato il commento di Nuno Santos, coautore della ricerca. Con gli strumenti del futuro – questa è la speranza- potremo vedere anche gli esopianeti di piccole dimensioni. La galassia ci sembrerà più vicina e meno misteriosa. Un potenziale, promettente candidato sul quale puntare la nostra attenzione c’è già.
Si chiama Kepler-186f ed è il primo esopianeta con caratteristiche molto vicine a quelle terrestri: quasi la stessa dimensione, più o meno la stessa temperatura stimata. Orbita attorno ad una nana rossa a 500 anni luce da noi, nella Costellazione del Cigno e si trova nella Fascia di Abitabilità: se lassù c’è acqua, è liquida. “Per la prima volta, possiamo indicare una stella nel cielo e dire: lì si trova un pianeta simile al nostro”, afferma uno degli autori della ricerca da poco pubblicata su Science, l’astronomo David Charbonneau. Se non proprio un gemello della Terra, ora sappiamo di aver trovato almeno un cugino…
SABRINA PIERAGOSTINI