Se n’è andato in silenzio. Un’uscita di scena in punta di piedi, senza clamori. Della sua morte abbiamo saputo solo a funerali celebrati, con un breve comunicato della famiglia diffuso sul suo sito online.
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” Siamo spiacenti di informarvi che Zecharia Sitchin si è spento la mattina del 9 ottobre 2010.” Poche parole concesse al suo pubblico che lo seguiva fedele da oltre 30 anni, ovunque.
Sono milioni le copie dei suoi libri tradotti e venduti in tutto il mondo, anche in Cina. Proprio la versione in mandarino del suo “Il giorno degli dei” faceva bella mostra sul suo tavolo-scrivania, nell’appartamento di New York in cui l’avevo incontrato qualche mese prima. “In cinese, guarda, chi l’avrebbe mai immaginato?”, mi aveva detto sorridendo indicandomi la locandina del libro poco prima di concedermi una lunga intervista- la sua ultima intervista.
Un burbero dal cuore tenero. E’ questa l’immagine personale che serbo di lui. Io ho avuto infatti la fortuna di incontrarlo , di parlargli, di intervistarlo. E credo di essere riuscita ad entrare in sintonia con questo grande uomo . Si era creato un imprevedibile feeling tra di noi. Imprevedibile, inatteso, ma visibile e concreto. Proprio lui, che durante il nostro incontro aveva imposto con energia il divieto assoluto di fotografarlo , alla fine della lunga chiacchierata mi chiese una foto ricordo. E si mise in posa , sorridente, accanto a me che gli cingevo le spalle. Quello scatto è uno dei miei ricordi più belli. Era un uomo di incredibile vivacità e lucidità, nonostante l’età avanzata che si notava molto più nel fisico- il suo passo era incerto, le spalle ricurve, il corpo fragile- che non nella mente: ha affrontato come me per due ore gli argomenti a lui più cari senza mai –dico mai- perdere il filo, citando date, nomi e luoghi con precisione assoluta. Ricordo ancora con tenerezza la domanda che mi pose mentre stavo per congedarmi da lui. “Sabrina, tu quanti anni mi dai?”. Io sapevo tutto di lui, mi ero preparata con meticolosità in vista di quell’intervista così importante per me e di certo non ignoravo la sua data di nascita, ma ero stata al gioco. “Al massimo un’ottantina, Dottor Sitchin…”, gli risposi. “No, ne ho novanta!”, aveva replicato lui, gongolante di fronte alle frasi di finto stupore mio e della troupe. Zecharia Sitchin me lo ricordo così.
Non era stato facile arrivare fin lì, in quell’appartamento nel cuore di Manhattan in cui abitava da solo. L’idea di intervistarlo mi balenava da tempo. Sitchin era uno dei padri-fondatori della teoria degli Antichi Astronauti, discusso autore di decine di best-seller che illustravano l’origine aliena della razza umana . Testi che avevo divorato uno dopo l’altro, che mi avevano incuriosito, affascinato, stupito, ma che avevano scatenato anche perplessità e dubbi. Nella mente mi frullavano mille domande che solo lui poteva soddisfare. Ma non sapevo come rintracciarlo. Provvidenziale fu l’intervento di un giovane scrittore italiano, Luca Scantamburlo, da tempo impegnato nella ricerca del bandolo nell’intricata matassa del cover-up sull’argomento “alieni” . L’avevo intervistato per uno speciale televisivo dedicato alle presunte missioni segrete sulla Luna: ne era nata un’amicizia basata sulla reciproca stima. Così Luca, che aveva avuto uno scambio epistolare con Sitchin , dopo averne ottenuto il permesso, mi aveva passato il numero di fax .
E fu così che nel gennaio 2010 prese il via un intenso scambio epistolare. Sitchin non aveva un indirizzo email, quindi tutte le comunicazioni avvenivano per iscritto e via fax. Foglio dopo foglio, nel mio inglese imperfetto, cercavo di fissare la data dell’intervista. Ma lui, risposta dopo risposta, rinviava, poneva condizioni, insomma cercava scuse- dal mio punto di vista- per non concedermela. Alla fine, mi resi conto che continuare ad insistere, scrivendogli da casa mia, non mi avrebbe portato a molto: evidentemente Sitchin, abituato ad essere contattato da chissà quanti sedicenti giornalisti e pseudo-studiosi, non si fidava del tutto. Scelsi dunque un’altra strada. Gli scrissi , per la prima volta, con la carta intestata della mia redazione, comunicandogli che entro pochi giorni avrei intervistato – come poi di fatto avvenne- Padre Josè Gabriel Funes, Direttore della Specola Vaticana (il centro di studi astronomici della Santa Sede) e che avrei potuto essere a New York, per incontrare anche lui, a metà maggio. Ma non avrei aspettato oltre e pretendevo una riposta definitiva: o sì o no. Una sorta di cortese, ma fermo ultimatum che ebbe successo. Tempo poche ore e arrivò la risposta. Ed era un sì.
Così il 13 maggio 2010 , alle 16 del pomeriggio, Zecharia Sitchin mi aprì la porta di casa. Mi si presentò vestito con una semplice camicia a righe e un paio di pantaloni marroni, un po’ curvo, il passo lento, ma con un piglio deciso. Vedendo me e la troupe- in tutto 4 persone- si accigliò: era un uomo abituato ormai a vivere in solitudine e troppa gente tutta insieme- pensai- lo infastidiva. Ma ci fece entrare ed accomodare in una sala con un lungo tavolo stracolmo di libri e fogli. Guardandomi attorno, ebbi come l’impressione di essere tornata indietro nel tempo: i centrini posati sugli schienali delle poltrone, la tappezzeria alle pareti, persino l’antiquato televisore a transistor dicevano che tutto, lì dentro, si era fermato ai primi anni ’80. L’unica parvenza di tecnologia moderna erano un pc posato sul tavolo e il fax nella camera accanto. Proprio lì, mentre la troupe sistemava luci e telecamera per l’intervista, con fare un po’ severo Sitchin mi chiamò da parte. Mi fece sedere di fronte a lui e mi interrogò sull’intervista a Padre Funes. Mi sentivo come una scolaretta convocata dal Preside… Incominciai a spiegargli il contenuto della chiacchierata avuta pochi giorni prima con l’astrofisico vaticano vicino a Castelgandolfo. Ma non era quello che voleva sapere. Mi chiese:”Te l’ha detto che ci siamo scritti?”. In effetti quella domanda io l’avevo rivolta a Padre Funes, ottenendo però una sostanziale smentita: mi aveva confermato che sì, forse uno scrittore con quel nome gli aveva mandato una lettera, ma lui- non sapendo chi fosse – non gli aveva mai risposto. “Quell’uomo mente, non è in buona fede”, mi disse Sitchin ”ma adesso basta parlare di lui, ti mostro qualcosa”. E girandosi verso una vecchia borsa portadocumenti in pelle incominciò ad estrarre disegni, documenti e una statuetta raffigurante Enki, l’antica divinità sumera. Dal tono addolcito della sua voce e dallo sguardo benevolo capii di aver superato l’esame…
Dell’intervista che ne seguì si sa già tutto. E’ andata in onda quasi integralmente – la prima parte nello speciale di “Mistero” e “ Studio Aperto” del 1° luglio 2010, la seconda in una puntata di “Live” nell’autunno seguente. Gli spezzoni sono tuttora visibili sul web e a disposizione di chiunque voglia rivederli e risentirli. Sitchin- con grande cortesia- acconsentì a rispondere a tutte le mie curiosità, ripercorrendo la sua ben nota teoria sugli Anunnaki – gli Alieni scesi sulla terra in epoche remote, responsabili della nostra evoluzione grazie a tecniche di bioingegneria e per molti secoli Signori indiscussi del genere umano, venerati come dei. In quell’occasione anticipò per il pubblico italiano l’ultima sua scoperta contenuto nel libro “There were giants upon the Earth”, già edito negli Stati Uniti, ma che nel nostro Paese non era ancora stato tradotto: ovvero, l’esistenza –a suo dire- di resti ossei appartenuti ad una Anunnaki, la regina Nin-Puabi sepolta nell’antica città sumera di Ur. Resti poi trovati dagli archeologi e tuttora conservati presso il Natural Museum di Londra, di cui lui reclamava a gran voce gli esami del Dna. Era sicuro che il genoma di quella regina per ¾ non umana avrebbe rivelato i geni dei suoi antenati alieni e dimostrato, una volta per tutte, la fondatezza della sua teoria così osteggiata, criticata e spesso anche ridicolizzata dal mondo accademico tradizionale. Sapeva che avrebbe trovato l’opposizione della scienza e delle Chiesa cattolica , ma riuscire ad ottenere il test sulle ossa della regina Nin-Puabi era ormai il suo unico interesse, l’unico obiettivo ancora da centrare- consapevole che un eventuale risultato negativo avrebbe potuto sgretolare tutto l’impianto costruito in anni e anni di studi. Ma era pronto a correre il rischio, perché era certo di aver ragione.
Dopo la messa in onda dello speciale di luglio- che ha ottenuto risultati di audience davvero lusinghieri – Sitchin mi scrisse ancora. Per complimentarsi, ma non solo. Mi chiese, esplicitamente, di impegnarmi per far sì che l’esame del Dna venisse realizzato. Un po’ ingenuamente, sapendomi italiana e quindi vicina, almeno dal punto di vista geografico, allo Stato del Vaticano, mi invitò ad insistere per far arrivare la sua richiesta alle autorità competenti della Chiesa, proponendosi per una nuova intervista in vista di un nuovo programma… Nell’ultimo fax mi scrisse anche il suo numero di telefono privato- un onore che credo abbia riservato a pochi- perché lo tenessi informato su possibili sviluppi.
Ma la morte, sopraggiunta poche settimane dopo, ha interrotto la sua ultima, grande avventura.
Da allora migliaia di fan e lettori hanno sottoscritto una petizione per chiedere al museo britannico di effettuare il test, in una sorta di omaggio postumo allo scrittore scomparso a 90 anni. E centinaia di loro hanno scritto direttamente ai responsabili del Natural Museum. Ottenendo sempre la stessa risposta: esami del genere possono essere effettuati solo da un team specializzato, di fama internazionale, all’interno di un serio progetto di ricerca. Ebbene, è quello che sto provando a fare– in nome di quella sorta di eredità morale che Sitchin mi ha voluto trasmettere e alla quale non voglio sottrarmi- contattando genetisti, archeobiologi e sumerologi. L’impresa non è facile, perché nessun ricercatore affermato può e vuole partecipare dichiaratamente alla ricerca di un Dna alieno rischiando così di essere messo al bando dal mondo accademico in cui opera. Bisogna dunque procedere con cautela , a piccoli passi e con una strategia precisa. Ma sono fiduciosa. E non mollo…
SABRINA PIERAGOSTINI