Si chiama DeeChee, è alto 90 centimetri, ha grandi occhioni neri e un sorriso stampato sul volto. Ma a dispetto della descrizione, non è un bambino: è l’ultimo prototipo di robot, dotato delle fattezze e della capacità di apprendimento di un piccolo essere umano, che ricorda molto il protagonista del film di Spielberg “A.I.”
I suoi ‘papà’ sono il professor Christopher Nehaniv e il dottor Joe Saunders che hanno progettato questa tipologia di autonomi definiti iCub- cuccioli tecnologici. Il loro scopo: replicare il modo di imparare a parlare dei bimbi. DeeChee, infatti, sembra in grado di apprendere e ripetere semplici parole se a insegnarle è un adulto.
Il lavoro dei ricercatori, appena pubblicato sulla rivista scientifica PLoS One, si è concentrato sul delicato momento nel quale un neonato passa dalla lallazione alle vere, prime parole di senso compiuto. Il mini-robot è stato costruito per poter pronunciare qualunque sillaba in lingua inglese, ma all’inizio- proprio come un bambino di pochi mesi- non conosceva altro.
Durante l’esperimento, un volontario ha incominciato ad insegnargli semplici parole collegate a forme e colori, ripetendogli i termini più volte. All’inizio, tutto ciò che DeeChee percepiva era solo un flusso di suoni non segmentati. Ma il suo programma informatico gli consentiva di spezzare quell’insieme di sillabe e di immagazzinarle nella sua memoria. A quel punto, le parole sono state classificate in base alla loro frequenza nella conversazione.
Le prime ad essere state riconosciute sono state “rosso” e “verde”. Non solo. Il robottino ha appreso anche i termini legati all’incoraggiamento, come “buono” e “ben fatto”. Insomma, nel giro di poco tempo- minuti, dicono i ricercatori- DeeChee ha trasformato il balbettio infantile in un linguaggio coerente.
Se la ripetizione dei suoni aiuta i bimbi ad imparare a parlare, non è una sorpresa che le nostre prime parole siano “mamma” e “pappa”. Allora perchè, si sono chiesti gli scienziati, non iniziamo invece a pronunciare parole ancora più semplici, sicuramente ripetute più volte, come ad esempio “il” oppure “con”?
La risposta, dice lo studio correlato condotto dalla scienziata informatica Catherine Lyon dell’Università di Hertfordshire, è che le parole che formano il tessuto connettivo del nostro linguaggio, come articoli o preposizioni, vengono utilizzate in decine di costrutti diversi e così per un neonato è difficile riconoscerle. Insomma, le parole più concrete, anche se magari più complesse, come “casa” o “mela”, vengono tendenzialmente imparate molto prima.
Dal momento che ai volontari è stato chiesto di parlare al robot in modo naturale, la somiglianza dell’automa ad un bambino è risultata fondamentale. L’iCub infatti è stato programmato per sorridere quando è pronto ad ascoltare il suo istruttore, ma l’espressione felice si spegne quando è stanco e bisognoso di una pausa.
Anche se non è sessuato, chi guarda DeeChee lo considera un maschietto e lo tratta di conseguenza. “Quando abbiamo chiesto ai volontari di parlare al robot come se fosse un ragazzino, tutti lo hanno fatto in modo molto spontaneo”, ha confermato la Lyon. “Se hai di fronte un computer formato da cavi e tasti, la reazione che si ottiene non è certo la stessa…”
Per lo psichiatra infantile Paul Goldstein questo studio è innovativo e potrebbe aprire nuove prospettive nel campo della robotica. “Se davvero comprendiamo come fanno i neonati ad apprendere il linguaggio, allora potremo costruire robot in grado di fare altrettanto.” Una prospettiva che ci avvicina sempre di più al mondo dei replicanti e delle intelligenze artificiali che il cinema ha già da tempo immaginato.
SABRINA PIERAGOSTINI