C’è una nuova pista per decriptare l’incomprensibile Codice Voynich. Ma porta molto lontano dall’Europa, dove questo testo misterioso ha fatto la sua apparizione ufficiale nel XVI secolo per poi ricomparire un secolo fa, in un collegio gesuita italiano. L’ultima ipotesi proposta da due ricercatori americani punta infatti al Messico.
Lo sostengono, in un articolo pubblicato sulla rivista American Botanic Council, Arthur Tucker, professore di botanica presso l’Università Statale del Delaware, e Rexford Talbert,un ricercatore che ha lavorato per il Ministero della Difesa e per la Nasa. A convincerli dell’ origine mesoamericana del manoscritto che ha fatto impazzire decine di studiosi, è stata la grande somiglianza tra la rappresentazione della xiuhhamolli o pianta del sapone, contenuta nel Codice de la Cruz-Badianus (noto anche come “Libriccino delle erbe medicinali degli Indi” e risalente al 1552) e un disegno presente nel codice Voynich.
“Entrambe le raffigurazioni mostrano un tronco legnoso, grande e largo, di color grigio-biancastro, con una corteccia increspata, e delle radici grossolane spezzate che ricordano le unghie dei piedi”, scrivono i due ricercatori. “I ritratti delle due piante sono così simili che potrebbero essere stati disegnati dalla stessa mano o dalla stessa corrente artistica.”
Questa miniatura è solo una delle centinaia che adornano questo testo enigmatico del quale si ignora quasi tutto. A partire dalla lingua nel quale è stato scritto: così impenetrabile da sembrare del tutto fittizia. Molti linguisti sostengono infatti che quei segni astrusi che coprono le oltre 200 pagine del manoscritto, alternati a disegni variopinti, altro non siano che una colossale bufala: qualcuno, tra il 1400 e 1500, si sarebbe inventato un alfabeto di pura fantasia con il quale realizzare un libro da vendere a caro prezzo agli appassionati e ricchi collezionisti di opere antiche.
Un tranello, astuto, nel quale sarebbe caduto l’Imperatore Rodolfo II di Germania, primo acquirente del testo fin da subito risultato indecifrabile- e quindi, ancora più affascinante. Il monarca lo acquistò per la somma considerevole di 600 ducati d’oro. Ma alla fine del XVI secolo di quel libro si perse ogni traccia. Riapparve nel 1912 a Frascati, dove venne comprato da un antiquario americano di origini polacche, Wilfrid Voynich, dal quale prese il nome. Di recente, l’analisi al radiocarbonio ha datato le pergamene- ma non l’inchiostro- all’inizio del 1400. Elemento che però non è servito a penetrare il suo segreto, finora irrisolto.
L’errore di fondo, secondo Tucker e Talbert, è stato ipotizzarne la provenienza europea, mentre tutto farebbe pensare che sia stato realizzato nel Nuovo Mondo. Lo proverebbe proprio la sezione dedicata alla botanica. Oltre alla già citata “pianta del sapone”, nel Manoscritto Voynich sarebbe disegnata anche la “Viola Bicolore”, una volta confusa con la “Viola Tricolore di Eurasia”, e invece nativa del Nord America. I due studiosi avrebbero poi collocato 37 piante, sei animali e un minerale descritti in questo misterioso libro in un’area geografica compresa tra Texas, California e Nicaragua: al centro, c’è il Messico…
Non solo. Gli autori sostengono che anche lo stile pittorico di chi ha realizzato le miniature sia molto simile a quello dei codici composti in Messico nel XVI secolo. Inoltre, affermano che mentre i nomi utilizzati per piante e animali sembrano presi in prestito dal Nahuatl Classico ( la lingua azteca), dallo Spagnolo, dal Taino e dal Mixteco, invece il resto del testo appare scritto in un dialetto ormai scomparso del Messico centrale, probabilmente di Morelos o di Puebla.
Gli altri ricercatori hanno accolto con grande scetticismo le conclusioni di Tucker e Talbert. Come ad esempio l’informatico Gordon Rugg, professore della Keele University, in Gran Bretagna, che già nel 2004 era giunto alla conclusione che il Codice Voynich fosse un falso. A suo avviso, tutte le piante dipinte su quelle pergamene sono solo un’invenzione. “Se avessi un programma in grado di generare, a caso, delle piante e ne creassi in questo modo una cinquantina puramente inventate, sono sicuro che ne troverei almeno 20 somiglianti ad altrettante reali”, ha detto al settimanale di divulgazione scientifica The New Scientist.
Altrettanto poco convinto anche Alan Touwaide, storico della scienza presso lo Smithsonian Institution di Washington DC. “La guerra tra chi ritiene che questo codice contenga un vero significato ancora da decifrare e chi invece lo ritiene solo l’opera di un falsario per ingannare i collezionisti rinascimentali continua. Questo studio è interessante, ma non prova nulla. Se è un falso, qualcuno potrebbe aver pensato di costruirlo sulla base della flora del Nuovo Mondo. Al massimo, mostra quale possa essere stata la fonte per costruire l’intera contraffazione.”
Ma per Arthur Tucker uno dei punti cruciali della sua teoria è la viola bicolore o almeno quel fiore molto somigliante ad essa raffigurato nel manoscritto misterioso. Nasce solo in America, ma la differenza tra essa e la “cugina” euroasiatica, la “Viola Tricolore”, non era ancora nota all’inizio del ‘900, quando il codice venne scoperto. “Se davvero si tratta di un colossale imbroglio, chi l’ha scritto ha fatto un gran bel lavoro e deve aver avuto l’aiuto di un botanico competente che aveva conoscenze disponibili, in molti casi, solo dopo il 1912.”
Tuttavia anche i due studiosi sono consapevoli di non aver raggiunto una prova conclusiva. “Il nostro articolo è stato scritto, innanzitutto, per proporre un nuovo paradigma, visto che ormai da 100 anni non si è riusciti a decifrare una sola parola relativamente alle piante, partendo dall’ipotesi a priori che fossero europee. Ma ora stiamo tentando di ottenere altre prove che siano definitive e non soggette, come questa, ad interpretazione. In ogni caso, resta da comprendere il testo principale e finchè l’obiettivo non sarà raggiunto, non ne avremo realmente penetrato il segreto.”
“Noi siamo botanici e orticoltori, non linguisti. I nostri flebili tentativi di interpretare l’alfabeto per capire il linguaggio del manoscritto Voynich vanno considerati semplicemente come una chiave per future ricerche, non come un risultato acquisito. Resta molto, molto lavoro da fare e le ipotesi andranno verificate per anni.”
SABRINA PIERAGOSTINI