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Riscrivere la Storia, Schoch e Hancock ci provano ancora

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La Storia non è quella che abbiamo studiato a scuola, i nostri libri sono ormai superati e anche le nostre più profonde convinzioni legate al passato vanno riviste. Sono i capisaldi del pensiero di una schiera di ricercatori, sempre più convinti che l’umanità abbia radici lontanissime. Per loro, lo splendore artistico dei Sumeri e la perfezione dei monumenti della piana di Giza  sono il punto di arrivo- non quello di partenza. Molto  tempo prima, in altre aree del mondo, sarebbe esistita una civiltà evoluta di cui sono rimaste pochissime tracce. E ora vogliono trovare ulteriori prove a sostegno della loro teoria.

IL GEOLOGO ROBERT SCHOCH

IL GEOLOGO ROBERT SCHOCH

A suonare la riscossa è il geologo Robert Schoch, non nuovo ad affermazioni che hanno sconvolto l’establishment accademico. Negli anni ’90 del secolo scorso,  proprio lui ha sostenuto che la Grande Sfinge egiziana non può essere stata costruita nel 2500 a.C. come dicono gli egittologi. I segni verticali di erosione sui lati del basamento dimostrano, a suo dire, la presenza di pioggia, intensa e prolungata per decenni. Ma negli ultimi 5 mila anni, il clima di Giza è sempre stato lo stesso- caldo e arido. Per trovare intense precipitazioni bisogna andare indietro nel tempo, alla fine dell’Era Glaciale. Ecco, per Schoch la Sfinge è stata costruita allora. Quando invece, per tutti gli storici, a quei tempi l’Uomo al massimo costruiva piccoli idoli di pietra e disegnava scene di caccia nelle grotte, niente più.

Insomma, idee che stravolgono l’ordine prestabilito e soprattutto quel concetto di evoluzione lineare tanto caro agli studiosi tradizionali. No, per Schoch e per gli altri come lui, la Storia procede in modo decisamente irregolare: grandi avanzamenti tecnologici sarebbero spesso seguiti da improvvisi crolli in cui tutto o quasi va perso e così le conoscenze svaniscono,  per essere poi  “riscoperte”, dopo secoli di buio. Una teoria interessante, ma che va dimostrata: bisogna esibire prove assolutamente inequivocabili, produrre nuove ricerche con basi scientifiche, esaminare fonti e siti, organizzare altri scavi.

Anche per questo è nato ORACUL, acronimo di Organization for the Research of Ancient Cultures , un’organizzazione no-profit il cui scopo dichiarato è studiare le antiche culture e il remoto passato ad oggi sconosciuto dell’Umanità. “Il dibattito che circonda le origini della civiltà è ancora lontano dall’essere risolto”, scrive il geologo nella pagina di presentazione del progetto. “La ricerca indipendente condotta da studiosi e professionisti nel campo delle scienze naturali ha incominciato a mettere in dubbio il racconto comunemente accettato dell’inizio della civiltà.

IL SITO DI GOBEKLI TEPE RISALIREBBE AL 10 MILA A.C.

IL SITO DI GOBEKLI TEPE RISALIREBBE AL 10 MILA A.C.

Oggi, esiste un grande numero di prove provenienti da miriadi di campi che inducono in modo convincente a rivedere quel racconto, portando indietro di migliaia di anni la cronologia di una cultura avanzata. Osteggiati da molti studiosi ortodossi, i cui interessi sono serviti a mantenere lo status quo, gli scienziati e i professionisti coscienziosi che tentano di attirare l’attenzione su queste prove controcorrente sono spesso ignorati e ridicolizzati. Messa in difficoltà dalla mancanza di fondi, pubblicità, collegamenti, questa ricerca innovativa riguardo le antiche culture continua a languire in una relativa oscurità”, si lamenta Robert Schoch.

Ecco dunque la sua iniziativa, il cui scopo principale è raccogliere denaro e dare visibilità agli sforzi condotti dai ricercatori come lui. “ORACUL lavora per portare queste ricerche all’attenzione sia della comunità accademica che del pubblico oltre che per condurre nuove indagini sulle antiche culture. Tale ricerca pionieristica coinvolge non solo le scienze naturali, ma anche le opinioni serie e fuori dal coro in altre discipline. Raggiungerà il suo scopo focalizzandosi su tre primarie aree di attività: promozione della ricerca, pubblicazioni e attività formativa.”

Ma cosa è successo, a questa presunta civiltà che si è sviluppata in epoche lontane e alla quale nessuno storico dà credibilità? Sarebbe stata cancellata da un cataclisma di dimensioni globali, un disastro su scala planetaria che avrebbe letteralmente spazzato via quelle evolute città e i suoi abitanti. I pochi sopravvissuti avrebbero lasciato le loro terre devastate, spargendosi nei vari continenti e mescolandosi con popolazioni più primitive, alle quali avrebbero insegnato le loro conoscenze. Vi suona come qualcosa di già sentito? Effettivamente, è così: molte leggende di diversi popoli raccontano di civilizzatori arrivati da lontano, esseri superiori dotati di grande sapere, e di una catastrofe che distrusse il mondo. E ci costrinse a ripartire da zero.

GRAHAM HANCOCK A GOBEKLI TEPE

GRAHAM HANCOCK A GOBEKLI TEPE

Lo sostiene nel suo ultimo libro “Il ritorno degli Dei” anche lo scrittore Graham Hancock. Pone come data cruciale il 12.800 a.C., epoca in cui alcuni geologi (contestati, tuttavia, dai loro stessi colleghi) collocano l’impatto sulla Terra di uno sciame cometario. Il Nord America, l’Europa e il Medio oriente furono colpiti da quegli enormi frammenti, del diametro di alcuni chilometri, che provocarono lo scioglimento improvviso dei ghiacci, con conseguente innalzamento dei livelli dei mari e terribili inondazioni. Ma non solo: la polvere sollevata dagli impatti e la cenere degli incendi creò una spessa coltre che oscurò a lungo il Sole, causando un drastico calo delle temperature. Questa fase geologica nota come Dryas Recente avrebbe segnato la repentina scomparsa di quella civiltà fiorita nei millenni precedenti e messo a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana.

Il libro è come un viaggio attorno al mondo:  l’autore ci porta con sé da Gobekli Tepe, in Turchia, a Gunung Padang, in Indonesia; da Baalbeek, in Libano, fino alle rovine megalitiche di Bolivia e Perù. Testimonianze dirette, secondo Hanckock, di quella civiltà misconosciuta, tracce evidenti di un passato remoto che abbiamo dimenticato. Quell’amnesia collettiva, dice,  ha portato gli archeologi ad attribuire, erroneamente,  quei monumenti straordinari ai popoli che sono arrivati in realtà molti secoli dopo, in epoche ormai storiche. Insomma, gli antichi li avrebbero trovati già lì, splendidi e misteriosi anche ai loro tempi.

LA TERRA DURANTE IL DRYAS RECENTE, TERMINATO NEL 9600 A.C.

LA TERRA DURANTE IL DRYAS RECENTE, TERMINATO NEL 9600 A.C.

Incredibile? Per l’autore, no. Se un simile disastro si ripetesse ora- e l’ipotesi per lui non è così peregrina- la nostra civiltà, così dipendente dalla tecnologia, subirebbe il tracollo. Al contrario, le tribù isolate dell’Amazzonia o della Micronesia,  abituate a vivere con poco e a contatto con la natura, non avrebbero difficoltà a ripartire. Se sopravvivendo alla catastrofe arrivassimo fin lì e insegnassimo loro come perfezionare le tecniche di costruzione o come migliorare i raccolti, saremmo forse visti come esseri straordinari. Se poi raccontassimo di strumenti con i quali parlare a enorme distanza o di mezzi con i quali volare nel cielo, diventeremmo addirittura creature leggendarie. Ciò che sembra assurdo agli storici odierni, afferma Hancock, potrebbe essere veramente accaduto.

SABRINA PIERAGOSTINI

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