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La sfida del METI: “Mandiamo noi i messaggi agli Alieni”

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Da decenni sentiamo parlare di SETI– acronimo di Search for Extra Terrestrial Life– un sistema di radiotelescopi in ascolto di eventuali segnali inviati da civiltà intelligenti sparse nel cosmo che finora ha dato risultati poco esaltanti: sostanzialmente, nessuno. Prepariamoci allora a sentir parlare sempre di più di METI: la sigla sta per Messaging Extra Terrestrial Intelligence e segna un cambio radicale di strategia. Perché in questo caso siamo noi a mandare messaggi nello spazio, come bottiglie lanciate nell’oceano, nella speranza che qualcuno li raccolga…

IL SETI FINORA NON HA RACCOLTO SEGNALI INTELLIGENTI DALLO SPAZIO

IL SETI FINORA NON HA RACCOLTO SEGNALI INTELLIGENTI DALLO SPAZIO

Va detto, il progetto non gode di buona fama e non è neppure condiviso tra gli stessi scienziati. Pesa il giudizio di una delle menti più brillanti dell’astrofisica, Stephen Hawking, che sull’idea di comunicare con altre ipotetiche creature di cui non sappiamo niente è stato categorico: meglio evitare. Per il professore britannico significa andare in cerca di guai: a rispondere, potrebbero essere cattivi soggetti alla conquista di pianeti altrui che potrebbero fare di noi esseri umani spezzatino per cena. O comunque, nella migliore delle ipotesi, la loro superiorità tecnologica finirebbe con l’annientarci  e faremmo la fine dei Nativi americani dopo l’arrivo degli Europei.

Opinione respinta al mittente da Douglas Vacoch, docente del Dipartimento di Psicologia Clinica del California Institute of Integral Studies  dal curriculum lungo e impressionante:  tra le altre cose, è direttore del programma di Composizione di Messaggi Interstellari del SETI nonché presidente del METI International, un’organizzazione no profit che promuove iniziative al fine di inviare segnali nel cosmo rivolti a potenziali ascoltatori. Lo ha intervistato il sito Seeker.com

“Quando parlo con gli altri scienziati dei possibili rischi del METI, convengono che la percezione pubblica del pericolo è eccessiva. Ed è naturale. Sappiamo che il nostro cervello è cablato per prestare attenzione a vivide immagini di pericolo, anche quando il rischio collegato non è credibile. Così quando Stephen Hawking mette in guardia dagli Alieni perché potrebbero decimare i Terrestri come i Conquistadores hanno fatto nel Nuovo Mondo, questa immagine evocativa scatena il nostro allarme interno, anche se lo scenario è del tutto illogico.”

UN'IMMAGINE DI DOUGLAS VACOCH

UN’IMMAGINE DI DOUGLAS VACOCH

Illogico è, ad esempio, pensare che creature evolute in grado di ascoltare e decifrare i nostri messaggi e così avanzate da poter prendere la loro astronave ed arrivare fin qua, non siano state in grado di captare tutti i segnali radio e tv che da decenni noi inviamo inconsapevolmente nello spazio.  Ormai è quasi un secolo che spargiamo le nostre emissioni elettromagnetiche attorno a noi: visto che queste onde viaggiano alla velocità della luce, sono arrivate in un raggio di quasi 100 anni luce dalla Terra, fino a chissà quante migliaia di pianeti extrasolari. E di questi, alcuni potrebbero essere abitabili o persino abitati. “Qualsiasi civiltà capace di ricevere un nostro messaggio ha già ascoltato tutto il resto, quindi sanno già che siamo qui”, chiosa Vacoch.

Allora, secondo lo psicologo, nel valutare i pro e i contro del progetto bisogna utilizzare i parametri scientifici e non i fattori emotivi. “Non conosco nessun ricercatore al momento coinvolto nel SETI che ritenga pericoloso inviare messaggi. Ma se persino il più brillante cosmologo al mondo evoca scenari semplicemente non plausibili, suscitando timori che precludono la ricerca più innovativa, allora dobbiamo fare un passo indietro e cercare un metodo più razionale per valutare la situazione e trovare un modo che consideri seriamente i rischi del METI senza dipendere da impressionanti immagini di conquiste aliene.”

Uno strumento c’è, per Douglas Vacoch, e si chiama peer review– la revisione dei pari, una procedura di analisi e valutazione delle  ricerche scientifiche da parte di esperti del settore, per stabilirne la fondatezza. “Ogni volta che ne parlo con gli altri scienziati, tutti mi dicono che la cosa ha senso. Perché creare un nuovo processo per valutare i progetti quando il modo normale per farlo esiste già? Con la revisione paritaria, gli studiosi possono spassionatamente prendere in considerazione le specifiche proposte.” Un metodo che può permettere loro anche di capire se valga la pena di andare avanti con il METI oppure no e di mettere alla prova idee diffuse.

“Per esempio- prosegue Vacoch-  possiamo testare l’ipotesi dello Zoo cosmico”. Secondo questa corrente di pensiero, le altre civiltà ci starebbero osservando da tempo a debita distanza,  in attesa di capire se la specie umana sia giunta ad un livello di evoluzione sufficiente, prima di prendere contatto con noi. Una scelta che spiegherebbe il famoso Paradosso di Fermi e il silenzio assordante di cui siamo circondanti “Bene, possiamo provare questa ipotesi trasmettendo segnali volontari ed intensi. Nel giro di pochi decenni vedremo, in modo molto concreto, se qualcuno ci risponde.”

E SE INVIASSIMO MESSAGGI VERSO UN VICINO PIANETA SIMILE ALLA TERRA?

E SE INVIASSIMO MESSAGGI VERSO UN VICINO PIANETA SIMILE ALLA TERRA?

Ma va cambiato l’approccio. Già sporadicamente in passato, nella metà degli anni ’70, il SETI ha spedito una dozzina di segnali intenzionali nello spazio, ma come singolo evento. “Se noi riceviamo un segnale una sola volta, non lo consideriamo  convincente. Se le altre civiltà hanno questo stesso principio in base al quale la scienza deve essere ripetibile e verificabile, dovremmo inviare le nostre trasmissioni in modo continuo per essere presi sul serio.” Non solo: dovremmo mirare anche ad obiettivi relativamente vicini.

In un esperimento del 1974, ad esempio, venne spedita un’immagine simbolica in direzione dell’ammasso globulare di Ercole M13, che dista 25 mila anni luce da noi. “Invece di mandare messaggi che richiedono 50 mila anni per ottenere una risposta, dovremmo indirizzarci verso stelle più vicine. Anche se ci volessero dieci o vent’anni per ottenere una replica, sarebbe pur sempre un periodo di tempo compatibile con la vita umana. E così potremmo  effettivamente vagliare le nostre ipotesi.

Un’eventuale risposta alla nostra richiesta potrebbe davvero cambiare la storia dell’umanità. I sostenitori del METI stanno lavorando per organizzare il primo tentativo di invio nello spazio di un messaggio forte, ripetuto e intenzionale in direzione di un vicino sistema solare. Un target interessante potrebbe essere Proxima Centauri attorno alla quale- ora lo sappiamo- orbita almeno un pianeta roccioso (Proxima b), a circa 4 anni luce da noi. Ma la comunità scientifica non sembra pronta a questo passo e il dibattito è ancora in corso.

L'ASTRONOMO DEL SETI SETH SHOSTAK

L’ASTRONOMO DEL SETI SETH SHOSTAK

Anche perché bisogna stabilire cosa inviare. Formule matematiche? Simboli? Messaggi in codice binario? E se sbagliassimo forma o contenuto? Seth Shostak, uno dei più autorevoli astronomi del SETI, ha un’idea: spedire nell’universo  il server di Google, pieno zeppo di tutte le informazioni possibili. “Se abbiamo potuto tradurre i geroglifici è anche grazie alla grande quantità di testi scritti che avevamo a disposizione”- ha detto in varie interviste. “Mandiamo nello spazio tutto lo scibile umano presente su Internet: sarà compito degli Alieni poi decifrarlo e capirci qualcosa…”

SABRINA PIERAGOSTINI

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