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Un messaggero venuto da lontano, da un altro sistema solare. Un viaggiatore solitario con una storia lunga forse milioni di anni. Questo è Oumuamua, l’asteroide più strano mai avvistato dai nostri telescopi. Così anomalo, per forma e chimica, da far pensare anche che si potesse trattare, in realtà, di un oggetto artificiale – come una sonda o persino un’astronave- costruito da una civiltà aliena per esplorare la galassia. Un’ipotesi poi non suffragata dai dati emersi finora, ma comunque un’ipotesi scientifica.

UN'iMMAGINE ARTISTICA DELL'ASTEROIDE OUMUAMUA

UN’IMMAGINE ARTISTICA DELL’ASTEROIDE OUMUAMUA

Ad avanzarla, ad esempio,  è stata anche una delle più brillanti menti del momento: l’astrofisico Avi Loeb, docente all’Università di Harvard. Tra i numerosi incarichi che ricopre, è anche presidente del  Comitato consultivo della Breakthrough Starshot Initiative, il progetto da 100 milioni di dollari promosso dal magnate russo Yuri Milner per cercare e possibilmente trovare la vita nel cosmo. Loeb infatti fa parte di quel crescente numero di ricercatori di altissimo livello che stanno applicando i più rigorosi metodi scientifici per tentare di rispondere alla domanda delle domande: siamo soli nell’Universo?

Anche il professore di Harvard è convinto che restare semplicemente in ascolto, nella speranza di captare segnali inviati volontariamente verso di noi da altre civiltà, non sia il sistema migliore. Molto più utile è invece andare alla ricerca di tecno-firme, ovvero di elementi tipici di una tecnologia avanzata che possono essere individuati anche indipendentemente dalla volontà di chi li ha prodotti. Abbiamo visto, in un recente articolo pubblicato sul blog,  che una delle possibilità (proposta dall’astronomo spagnolo Hector Socas-Navarro) è scovare con i nostri telescopi la presenza di satelliti artificiali in orbita attorno agli esopianeti. Ma non è l’unica idea del genere.

Insieme al suo collaboratore Manasvi Lingam, Avi Loeb sta prendendo in esame tutti i molteplici modi per trovare tracce di civiltà nello spazio. Una, ad esempio, potrebbe essere la presenza di celle solari distribuite in grande quantità sulla superficie di pianeti lontani. Se ci fossero, i nostri strumenti sarebbero in grado di individuare l’anomala abbondanza di silicio (il semiconduttore usato per la produzione di energia fotovoltaica) e insieme anche una variazione nella lunghezza d’onda della luce riflessa. Ecco, questa sarebbe un’inequivocabile tecno-firma.

UN IMMAGINARIO ESOPIANETA SIMILE ALLA TERRA

UN IMMAGINARIO ESOPIANETA SIMILE ALLA TERRA

Ovviamente, non è detto che chi l’ha creata esista ancora. Anzi, il Paradosso di Fermi che recita: “se l’universo è pieno di vita, dove sono tutti quanti?”, potrebbe avere questa risposta: c’erano, ma sono già morti. Le civiltà tecnologiche potrebbero essere destinate ad avere vita breve– a causa del rischio di autodistruzione- e magari, quando scopriremo un pianeta ricoperto da pannelli solari, gli individui che li hanno costruiti potrebbero essersi già estinti. Insomma, le tecno-firme possono sopravvivere ai loro creatori. Non solo, però: possono anche essere difficilmente individuabili.

Una delle idee più interessanti del professor Loeb è proprio questa: lo spazio attorno a noi potrebbe essere pieno di tracce tecnologiche lasciate da altre civiltà. Le stiamo lasciando anche noi: abbiamo lanciato sonde, razzi, satelliti artificiali e adesso – grazie alla follia visionaria di Elon Musk – persino un’auto… Nello stesso modo, qualunque altra civiltà evoluta può aver inviato di tutto nello spazio, da migliaia o milioni di anni a questa parte. Tuttavia, però, noi potremmo non essere in grado di vedere questi “messaggi nella bottiglia” abbandonati nel mare cosmico.  “Sarebbero molto difficili da individuare, perché emetterebbero pochissima energia”, ha spiegato.

LA TESLA LANCIATA NELLO SPAZIO DA SPOCEX DI ELON MUSK

LA TESLA LANCIATA NELLO SPAZIO DA SPACEX DI ELON MUSK

Le nostre capacità si sono molto affinate negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi tempi grazie ai telescopi di ultima generazione. Se Oumuamua fosse passato accanto a noi solo qualche anno fa, probabilmente non ce ne saremmo neppure accorti. Lo stesso discorso può valere per le sonde aliene spedite nella galassia: potrebbero essere sfuggite alla nostra attenzione, semplicemente perché i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione non sono ancora abbastanza avanzati per riuscire ad identificarle  “Lo spazio interstellare potrebbe essere pieno di questi oggetti, ma come li troviamo?”, si è infatti domandato Loeb.  E ovviamente non trovarli non significa che non ci sono.

In uno scambio di opinioni con l’astrofisico Adam Frank, il docente di Harvard ha citato l’esempio delle onde gravitazionali, le perturbazioni nello spazio-tempo previste dalla teoria della relatività di Einstein nel 1916. Però c’è voluto un secolo per sviluppare macchinari sufficientemente sensibili per scoprirle: solo nel 2016, infatti,  sono state misurate le onde gravitazionali prodotte dalla collisione di due buchi neri. Quindi,  trovare o non trovare dello tecno-firme non dipende solo dall’esistenza o meno delle stesse, ma anche dalla nostra capacità tecnologica di vederle e di riconoscerle.

Abraham (Avi) Loeb, chair of the Astronomy Dept. talks about a new search for methods for primitive and intelligent life far from Earth inside the Perkins Building at Harvard University. Kris Snibbe/Harvard Staff Photographer

L’ASTROFISICO AVI LOEB

Da questo punto di vista, Avi Loeb sembra ottimista. “Noi umani probabilmente non siamo nulla di speciale”, ha detto al collega Frank. Considerando il numero stratosferico di pianeti nell’universo, c’è senz’altro la possibilità che altre civiltà si siano sviluppate altrove. La possibilità, ma non la certezza. “Do l’ultima parola ai fatti”, ha aggiunto il professore. E i fatti possono arrivare solo dalla ricerca sistematica e dal potenziamento della tecnologia. Poi, non ci resterà altro da fare che restare ad osservare, per vedere se troviamo prove di vita intelligente.

SABRINA PIERAGOSTINI

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