Sembra la trama di un horror, una specie di versione moderna di Frankenstein. Invece, è soltanto l’ultima frontiera della scienza: in un laboratorio della California, un gruppo di ricercatori ha “costruito” il cervello in miniatura di un Neanderthal da collegare ad un robot per cercare di comprendere come quell’ominide agisse, pensasse, vivesse. Ma soprattutto, per capire perché si è estinto, perchè quella specie umana che ha convissuto per migliaia di anni con l’Homo sapiens ad un certo punto, 40 mila anni fa, sia scomparsa lasciando a noi l’intero pianeta.
Questi mini-cervelli, del diametro di circa mezzo centimetro- grandi insomma quanto una lenticchia- vengono coltivati all’interno di piattini di Petri, piccoli contenitori in vetro utilizzati per le colture di laboratorio, all’Università della California. Non sono vascolarizzati, assorbono il nutrimento dall’esterno e quindi non possono svilupparsi oltre quelle dimensioni né sopravvivere a lungo, ma quei grumi neuronali potrebbero rivelare informazioni importanti ai ricercatori. “I Neanderthal sono affascinanti perché hanno condiviso con noi la Terra e ora c’è la prova genetica che ci siamo accoppiati con loro”, ha dichiarato a Live Science Alysson Muotri, a capo del progetto e direttore del San Diego Stem Cell Program.
Forse, proprio la differenza nel funzionamento dei nostri cervelli- in particolare, in una rete neuronale più o meno sofisticata- può spiegare perché loro si sono estinti e noi invece siamo ancora qui. I ricercatori hanno innanzitutto estratto il DNA da un osso fossile e sequenziato il genoma dell’ Uomo di Neanderthal, poi lo hanno paragonato al genoma di un essere umano. Hanno trovato circa 200 geni che mostrano significative differenze tra le due specie. Tra questi, ne hanno scelto uno sul quale focalizzare la loro attenzione, ovvero NOVA1, un gene “master” coinvolto nelle prime fasi dello sviluppo del cervello dell’embrione, collegato all’insorgenza di patologie come schizofrenia ed autismo e sospettato di avere un ruolo nella produzione di circa 100 proteine esclusive del Neanderthal.
A questo punto, con la tecnica del “taglia e incolla” alcune cellule staminali umane sono state modificate con frammenti di DNA dell’ominide estinto e si sono accresciute fino a produrre delle strutture che riproducono la corteccia cerebrale: ognuna è formata da circa 400 mila cellule, un piccolo grumo ben visibile ad occhio nudo. Più che un vero e proprio organo, si tratta di un organoide il cui processo di sviluppo ha richiesto dai sei agli otto mesi. “In futuro è possibile che riusciremo a farli crescere di più, stiamo lavorando per realizzare dei vasi sanguigni artificiali biostampati al loro interno”, ha detto Muotri. Ma questa, per quanto già stupefacente, è solo la prima fase.
“Gli organoidi sono ben lontani dal poterci dire quali siano le funzioni di un cervello adulto”, ha infatti obiettato Svante Pääbo, direttore del Max Planck Institute di Lispia, una vera autorità quando si parla di evoluzione umana e ominidi estinti. Ecco perché gli autori dello studio californiano sono pronti alla seconda fase della ricerca, uno step che ci avvicina ancora di più alla pura fantascienza. L’equipe di Muotri ha infatti escogitato un sistema per far sì che gli impulsi elettrici inviati dai minicervelli umani siano misurati da robot. Collegandoli insieme, sperano di instaurare un ciclo di feedback di apprendimento che aiuti il cervello riprodotto in laboratorio a guidare il robot nell’esplorare ciò che lo circonda.
“In sostanza, vogliamo comparare gli organoidi neanderthalizzati con le macchine per testare la loro abilità ad apprendere”, ha spiegato lo scienziato. Una ricerca all’avanguardia, che apre scenari inimmaginabili fino ad oggi, ma che nello stesso tempo induce a più di una riflessione. Un cervello umano- per quanto minuscolo- collegato ad una macchina in grado di tradurne i segnali elettrici sembra un primo passo per la creazione di forme di vita cibernetica, di robot senzienti, come quelli visti nei film. Ma questa non è fiction, è realtà, e porta con sé una serie di profonde implicazioni etiche. Siamo pronti ad una rivoluzione del genere?
SABRINA PIERAGOSTINI