Tutto da rifare. I test al radiocarbonio che 30 anni fa hanno sentenziato l’origine medioevale della Sindone non sarebbero attendibili, anzi, presenterebbero lacune e incongruenze tali da renderli non affidabili. A sostenerlo, in un articolo di Archaeometry, pubblicato nei giorni scorsi dal sito Onlinelibrary.wiley.com, sono un gruppo di ricercatori italiani e francesi che per la prima volta, dopo anni di richieste, hanno avuto accesso a tutti i dati grezzi del British Museum di Londra e li hanno potuti studiare.
Come è ben noto, nel 1988- dopo lunghe trattative per avere il permesso del Vaticano- dal lenzuolo di lino, conservato nel Duomo di Torino e considerato dalla devozione popolare il telo che avvolse il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla croce, vennero prelevati alcuni campioni che furono poi sottoposti ad una serie di esami per datare il reperto. Uno di questi era l’esame del C14 che permette di capire l’età di un materiale organico sulla base del decadimento degli isotopi radioattivi del carbonio. I campioni vennero poi consegnati a tre diversi laboratori (Oxford, Tucson e Zurigo), con il British Museum a fare da collettore e garante di dati.
L’articolo con il responso finale venne pubblicato l’anno dopo, nel 1989: a detta degli studiosi che lo firmavano, senza alcun dubbio la Sindone risaliva ad un periodo compreso tra il 1260 e il 1390. Una “prova conclusiva”, si diceva, proprio perché basata sul metodo del radiocarbonio, abitualmente utilizzato in archeologia e da tutti accettato. Caso chiuso, dunque. Tutti i giornali scrissero che la reliquia era un falso medioevale e anche la Chiesa, di fronte a questa evidenza scientifica, accettò il responso con rassegnazione. Durante la conferenza stampa nella quale fu dato l’annuncio, il 13 ottobre 1988, il cardinale Ballestrero dichiarò: “Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore”.
Eppure, da quel giorno, da più parti si sono levate voci di protesta che hanno polemizzato sulle procedure e le tecniche utilizzate. Il Sacro Lino, infatti, nella sua lunga e misteriosa storia è stato esposto al fumo delle candele accese dai fedeli e alle fiamme dei roghi che hanno rischiato di bruciarlo. Nei secoli, lo hanno toccato centinaia, migliaia di mani diverse ed è stato anche sottoposto a rattoppi e restauri più o meno improvvisati. Tutti elementi che ne avrebbero aumentato la presenza di C14 o comunque alterato la composizione, rendendo in questo caso il test non credibile.
Ma erano solo voci, per quanto autorevoli. Mancava un elemento essenziale: la possibilità di rivedere in modo organico e completo tutti i dati originali avuti a disposizione dai tre laboratori e archiviati a Londra. Le richieste sono sempre state respinte. Nel 2017, però, Tristan Casabianca, dell’Università di Aix-Marsiglia, ricorrendo al Freedom of Information Act (la normativa che nel mondo anglosassone obbliga le istituzioni pubbliche a fornire documenti su richiesta di un cittadino) si è rivolto al British Museum. Bingo: la risposta è stata affermativa e così Casabianca, insieme a Emanuela Marinelli (una nota sindonologa), Giuseppe Pernagallo e Benedetto Torrisi (entrambi docenti dell’Università di Catania), ha iniziato la verifica.
In un post per “La nuova bussola quotidiana” (http://www.lanuovabq.it/it/esclusivo-sindone-medievale-inaffidabile), la Marinelli ha spiegato come hanno proceduto e cosa hanno scoperto: “Una volta ottenuti questi dati, abbiamo usato diversi strumenti statistici molto potenti per individuare eventuali problemi (…).I risultati suggeriscono fortemente che i laboratori hanno prodotto risultati differenti non riconducibili allo stesso fenomeno. Probabilmente, durante il processo di datazione qualcosa è andato storto e la causa andrebbe rintracciata nella non omogeneità dei campioni selezionati”, scrive la sindonologa.
I quattro studiosi sostengono infatti che uno dei laboratori – quello di Tucson (Arizona) – realizzò otto misurazioni non omogenee tra di loro, ma che non vennero menzionate nell’articolo di Nature. “Sulla base di questi risultati, non è possibile continuare ad affermare che la quantità di atomi di C14 nei campioni era costante, il che rappresenta un’assunzione fondamentale per la datazione. Eliminare i valori estremi risulta quindi impossibile, perché ciò si tradurrebbe in una decisione puramente arbitraria”, scrive ancora Emanuela Marinelli.
Nonostante i dieci anni di negoziazioni tra archeologi, esperti di tessuti e Santa Sede per stabilire come procedere, a quanto pare il metodo individuato non sarebbe stato scevro da errori. Inoltre- insiste l’esperta della Sindone- non c’è nemmeno certezza che tutti i laboratori abbiano seguito in modo ferreo il protocollo pattuito: ad esempio, un sotto-campione non venne testato. In ogni caso, per gli autori di questo ultimo studio, non si può più affermare che la datazione al radiocarbonio sia stata accurata e nemmeno che sia rappresentativa dell’intero tessuto.
“Nel 1988, durante una famosa conferenza stampa, gli scienziati rivelarono al mondo che l’età della datazione era compresa negli anni “1260-1390!” (con il punto esclamativo). Il nostro studio rende più che legittimo cambiare questo punto esclamativo in un punto interrogativo. Dai risultati ottenuti nel 1988 nessuno può affermare con certezza che la Sindone abbia origini medioevali”, chiosa la Marinelli che ora auspica una nuova serie di esami, inseriti all’interno di un processo interdisciplinare, con l’uso di tecniche diverse, non distruttive, e con l’impegno di rendere i dati consultabili da chiunque ne faccia richiesta.
Urge dunque una nuova analisi complessiva della Sindone, che tenga in considerazione anche gli altri elementi singolari emersi nel corso degli anni e che- anziché spiegarla- ne hanno infittito il mistero. Uno studio condotto da un’equipe dell’ENEA nel 2018 ha dimostrato che il sangue presente sul telo di Torino non solo è autentico, ma apparteneva ad un uomo sottoposto a tortura. Una conferma di uno studio precedente, svolto da altri quattro ricercatori italiani e pubblicato su PlosOne.com, nel quale già si affermava che l’Uomo della Sindone fosse stato sottoposto a sofferenze indicibili , come si evinceva dalla presenza di nanoparticelle di creatinina contenenti ferridrite.
Nonostante molti ritengano l’immagine impressa sul lino opera di un falsario, finora nessuno ha saputo riprodurla: anche i tentativi del chimico Luigi Garlaschelli, con l’utilizzo di bassorilievi surriscaldati, hanno prodotto immagini somiglianti, ma molto lontane dall’originale nel quale le fibre di stoffa superficiali sono ossidate, non bruciate. E anche l’ipotesi che si tratti di un dipinto, realizzato da mani sconosciute, non ha trovato conferme. Anzi, le analisi hanno appurato solo piccole tracce di ocra (forse usata per rendere più vivide le macchie ematiche sbiadite dal tempo), ma non resti di pittura o segni lasciati da pennellate.
A questo proposito, sorprendente era stato il responso di uno studio condotto alcuni anni fa, sempre da alcuni ricercatori dell’ENEA, dopo aver invano cercato di duplicare la Sindone: «La doppia immagine di un uomo flagellato e crocifisso, visibile a malapena sul lenzuolo di lino della Sindone, presenta numerose caratteristiche fisiche e chimiche talmente peculiari che rendono ad oggi impossibile ottenere in laboratorio una colorazione identica in tutte le sue sfaccettature. Questa incapacità di replicare e quindi falsificare l’immagine sindonica impedisce di formulare un’ipotesi attendibile sul meccanismo di formazione dell’impronta. Di fatto, ad oggi la scienza non è ancora in grado di spiegare come si sia formata l’immagine corporea sulla Sindone».
Non solo: quell’impronta non si è formata per contatto diretto della stoffa sul cadavere, perché sono assenti le deformazioni geometriche tipiche di un corpo a tre dimensioni riportato a contatto su un lenzuolo a due dimensioni. In più, sotto le macchie di sangue non c’è immagine: ciò implica che le tracce di sangue si siano depositate prima e l’immagine si è formata in un momento successivo. Secondo questo studio, a produrla sarebbe stata un’emissione straordinaria di energia, ovvero un brevissimo e intenso lampo di radiazione VUV direzionale. Per realizzare l’immagine di un corpo umano alto 1,80 centimetri servirebbero però 34 mila watt. E- oggigiorno- nessuna sorgente di luce VUV può produrre una simile potenza. Come avrà fatto il falsario medioevale? Buona Pasqua a tutti…
SABRINA PIERAGOSTINI