Sperare di individuare una civiltà aliena tecnologica, lontana decine se non centinaia di anni luce da noi, rimanendo semplicemente in ascolto di eventuali trasmissioni radio, non è la soluzione migliore. Molti studiosi lo dicono e lo sostengono da tempo, ma che ora lo riconosca anche l’astronomo più noto del Search Extra Terrestrial Intelligence, il programma di ricerca che fa proprio quello- cercare segnali intelligenti nello spazio con i suoi radiotelescopi sparsi in tutto il mondo- non può lasciare indifferenti.
Seth Shostak, direttore del SETI Institute della California, lo dice in un articolo pubblicato pochi giorni fa sulle pagine online della NBCNews, il colosso tv americano, dal titolo molto chiaro: ”Perché le ‘megastrutture’ aliene possono essere la chiave per entrare in contatto con gli Extraterrestri- Cercare prove delle Sfere di Dyson potrebbe essere più fruttuoso che ascoltare le trasmissioni radio.” La sua riflessione prende le mosse dalle critiche rivolte al metodo finora utilizzato. Un metodo sensato, premette, visto che i segnali su onda radio viaggiano nello spazio come la luce e possono essere captati dall’odierna tecnologia. Ma la domanda è: questo è davvero il piano migliore o forse abbiamo puntato sul cavallo sbagliato?
L’astronomo ammette: c’è un’ alternativa più interessante e consiste nel cercare artefatti fisici, ossia oggetti o meglio opere ingegneristiche costruite da intelligenze extraterrestri da qualche parte nello spazio. Così si elimina un presupposto indispensabile per il sistema finora adottato dal SETI, ovvero la sincronicità. “Catturare le trasmissioni da parte di civiltà aliene richiede che il segnale raggiunga il tuo telescopio proprio nel momento in cui lo stai puntando nella loro direzione”, spiega Shostak. “È come sparare un proiettile in aria ed aspettarsi che sarà intercettato da un’altra pallottola esplosa da qualcun altro. Improbabile”.
In quasi tutti gli esperimenti radio SETI, infatti, la quantità di tempo trascorso ad ascoltare a una data frequenza è di pochi minuti appena. Poi, le grandi antenne si spostano e si concentrano su un altro punto dell’immenso cosmo che ci circonda. Considerando che l’universo è in circolazione da quasi diecimila miliardi di minuti, scrive nell’articolo Seth Shostak, ci vorrebbe una grande dose di fortuna per cogliere proprio quell’istante fugace. Senza dimenticare, poi, che l’invio di un messaggio nella nostra direzione include la volontà, da parte di chi lo manda, di farsi trovare. O la consapevolezza che sulla Terra esiste una civiltà in grado di intercettarlo- anche questo, non è scontato.
Invece, la ricerca di artefatti prescinde da tutte queste condizioni. Chi osservasse dallo spazio il nostro pianeta, in qualsiasi momento, da qualche migliaio di anni a questa parte, vedendo la Grande Muraglia cinese o le Piramidi in Egitto, non potrebbe aver dubbi sulla presenza di una specie dotata di capacità intellettuali e tecniche. Noi dovremmo fare altrettanto, cercando i prodotti dell’ingegno alieno. Come, ad esempio, le cosiddette “Sfere di Dyson”, teorizzate dal fisico Freeman Dyson, gigantesche costruzioni elaborate da civiltà dello spazio estremamente avanzata per sfruttare al massimo l’energia di una stella.
Si tratterebbe di una megastruttura composta da gran numero di pannelli solari in orbita al di là del pianeta, per catturare il calore dell’astro. Ma frapponendosi ad esso ne bloccherebbe, ad intermittenza, una parte della luminosità. Proprio quello che è stato registrato nel 2015 osservando una stella a 1500 anni luce dalla Terra e soprannominata “Tabby’s Star”, dal nome dell’astronoma, Tabetha “Tabby” Boyajian, che l’ha studiata. Qualcosa la oscura, in modo molto più massiccio di quello che il semplice passaggio di un pianeta o di uno sciame cometario potrebbe fare.
Ecco perché più di un ricercatore ha avanzato l’ipotesi della Sfera di Dyson. “Quella spiegazione per la Stella di Tabby oggi sembra molto meno probabile”, dice Seth Shostak. “Calcoli astronomici mostrano che diventa più rossa quando cala di intensità, suggerendo che è circondata da polvere di origine naturale e non da un mastodontico collettore di luce.” Eppure aggiunge: “È ragionevole pensare che le Sfere di Dyson possano esistere da qualche parte.” Tutto sta, allora, nel trovarle. Un’impresa che varrebbe da sola il premio Nobel.
“In passato”, spiega l’astronomo capo del SETI, “andavamo alla ricerca di simili massicci progetti ingegneristici rovistando nei cataloghi stellari per trovare quei sistemi che mostrassero un eccesso di luce infrarossa– prodotta dal lato caldo dei pannelli. Un altro approccio consiste nel setacciare i dati del telescopio spaziale dell’ESA Gaia per trovare le stelle la cui luce è più debole del previsto, semplicemente perché la loro luminosità è parzialmente e costantemente bloccata da un gruppo di pannelli. Di recente, il fisico Daniel Hooper dell’Università di Chicago ha offerto una nuova idea per andare alla ricerca di artefatti alieni altamente tecnologici.
“Nota che l’universo si sta espandendo e le galassie si separano sempre di più. Così, le società aliene lungimiranti potrebbero voler catturare le stelle dalle galassie vicine finché possono e parcheggiarle nei loro quartieri cosmici come riserva in vista di una futura scarsità di energia. È come mettere da parte un po’ di benzina, se si teme che verrà a mancare. Se esistono collezioni di stelle ammassate, sarebbe facile individuarle”. Conclude poi l’articolo: “L’ascolto di segnali extraterrestri ha una storia che merita rispetto e un futuro promettente. Tuttavia cercare le strutture accumulate nel corso di vari miliardi di anni potrebbe dare, a qualcuno, una marcia in più per quel Nobel. Sì, finora gli sforzi per trovare una Sfera di Dyson sono andati a vuoto. E non abbiamo trovato delle stelle di scorta. Ma domani tutto potrebbe essere diverso.”
SABRINA PIERAGOSTINI