Nè un robot, nè un animale, ma qualcosa a metà che in natura non esiste… Insomma, una “macchina vivente”. A darle vita, per la prima volta, un esperimento condotto negli Stati Uniti. La strana, minuscola creatura è stata chiamata Xenobot, perchè nasce dall’embrione della rana artigliata africana il cui nome scientifico è Xenopus Laevis. Ma quello che è stato ottenuto non ha nulla a che vedere con un anfibio: è un grumo di cellule grande un millimetro progettato da un super-computer.
UNO XENOBOT “QUADRUPEDE”
Insomma, lo Xenobot è figlio dell’intelligenza artificiale, anche se non è fatto di silicio ma di DNA. Lo ha presentato al mondo un articolo apparso a metà gennaio sulla rivista Proceedings of National Academy of Science. Nelle immagini postate sul sito web del team di ricerca, si vedono delle macchioline scure muoversi in un liquido dentro una piastra di Petri. Ma nell’ingrandimento al microscopio, scopriamo le loro forme inusuali: a triangolo, squadrate, a ciambella, con o senza protuberanze simili a zampe, a seconda di come sono state programmate al computer. «Non sono né un robot tradizionale, né una specie conosciuta di animali. Siamo di fronte ad una nuova classe di artefatto: un essere vivente, un organismo programmabile», ha detto in un comunicato stampa Joshua Bongard, scienziato informatico dell’Università del Vermont.
Queste le caratteristiche più interessanti: si spostano singolarmente o a gruppi, nuotando o camminando, sanno riparare i propri danni e sopravvivono qualche settimana anche senza nutrirsi. A determinare l’evoluzione degli xenobot sono stati gli algoritmi. I ricercatori hanno utilizzato le staminali prelevate dagli embrioni e le hanno fatte sviluppare in ammassi di centinaia di cellule che si muovono grazie agli impulsi generati dal tessuto cardiaco. «Non c’è alcun controllo esterno né bioelettricità. È un fattore autonomo, come se fossero giocattoli a carica», ha spiegato l’autore principale dello studio, Sam Kriegman, dottorando in robotica evolutiva del Dipartimento di Informatica di Burlington.
UN’ALTRA IMMAGINE DELL’ORGANISMO VIVENTE PROGETTATO DAL COMPUTER
Le staminali sono state organizzate in modo da formare degli organismi tridimensionali viventi. E poi hanno iniziato a lavorare da sole: le cellule della pelle si sono unite per formare la struttura, mentre quelle muscolari del cuore, poste in punti specifici dei “corpi”, permettono loro di spostarsi all’interno di una piastra da laboratorio per giorni e persino per settimane, senza bisogno di ulteriori nutrienti. In più, queste mini-macchine biologiche hanno persino mostrato la capacità di auto ripararsi e di guarire. «Abbiamo tagliato un robot vivente quasi a metà e le sue cellule si sono chiuse come una cerniera sul suo corpo», ha affermato Kriegman.
La scoperta del team del Vermont dimostra, ancora una volta, quanto sia sempre più labile il confine tra scienza e fantascienza, che di creature del genere ha riempito le trame di film e romanzi: pensiamo ai replicanti praticamente identici agli umani che popolano il fosco mondo di Blade Runner o il cyborg-killer tutto muscoli di Terminator. Finora abbiamo sempre relegato l’idea delle macchine viventi nel mondo dell’immaginazione, ma adesso ce le troviamo davanti, concretamente reali, in laboratorio.Ed è una tecnologia che può spaventare, soprattutto per i possibili sviluppi futuri.
A SINISTRA, IL MODELLO ARTIFICIALE; A DESTRA LO XENOBOT CORRISPONDENTE
«Quella paura non è irragionevole. Quando inizieremo a pasticciare con sistemi complessi che non capiamo, otterremo conseguenze indesiderate», ha ammesso in una nota un altro ricercatore coinvolto nella scoperta, Michael Levin, direttore del Center for Regenerative and Developmental Biology presso la Tufts University in Massachusetts. Ma, come si suol dire, la scienza non è né buona né cattiva: tutto dipende da come la si utilizza. Così Levin è convinto che semplici forme bio-robotiche come gli xenobot potrebbero portare a scoperte positive, perché potrebbero svolgere compiti che gli altri robot costruiti in metallo non possono fare.
Ad esempio, potrebbero essere impiegati per assorbire materiali tossici fuoriusciti da contaminazioni chimiche o radioattive. Potrebbero “mangiare” le microplastiche che oramai soffocano mari, laghi e fiumi, impedendone l’assorbimento da parte della fauna. O ancora, iniettati all’interno del nostro corpo, potrebbero aiutare a mantenere in salute le nostre arterie pulendone le pareti dalle placche o ancora per trasportare le medicine direttamente dentro gli organi. In ogni caso, sembra davvero che gli xenobot abbiano aperto una fase nuova nella robotica e nella biologia. Chissà dove ci porterà.