Era il 16 novembre 1974, quando per la prima volta veniva lanciato dal radiotelescopio di Arecibo, a Puerto Rico, un messaggio nello spazio diretto a potenziali ascoltatori di altri mondi abbastanza evoluti da poterlo captare e capire. Era il primo tentativo di METI- Messaging Extra Terrestrial Intelligence– ideato da due pionieri in questo campo, Frank Drake e Carl Sagan. Da allora, tuttavia, molto è cambiato-metodi, aspettative, tipo di comunicazioni- come ha spiegato in una lunga intervista Douglas Vakoch, a capo dell’organizzazione che si pone, come obiettivo, quello di entrare in comunicazione con un’intelligenza aliena.
Vakoch lo ha fatto parlando al podcast Science Focus della BBC, rimarcando proprio le differenze tra quel tentativo di 46 anni fa e l’attuale strategia in uso. “Era un messaggio lungo 3 minuti, molto ambizioso, trasmesso in due diverse frequenze per dimostrare agli Extraterrestri e anche a noi stessi che eravamo in grado di farlo: conteneva la descrizione di importanti elementi chimici sulla Terra attraverso il loro numero atomico, del nostro DNA, del nostro aspetto, del sistema solare utilizzando il sistema binario“, ha spiegato. Troppe informazioni tutte insieme, a suo giudizio. Ora il METI ha un approccio diverso: “Preferiamo mandare qualcosa di breve che possa essere intellegibile: anziché un’enciclopedia, meglio un piccolo manuale indirizzato a scienziati alieni”.
Non solo. Il radiotelescopio fu puntato verso un ammasso stellare chiamato M13- l’ammasso globulare di Ercole– distante 25 mila anni luce da noi. Quindi, ci vogliono ancora 24.954 anni prima che arrivi da quelle parti. E nel caso in cui qualcuno lo riceva e lo comprenda, serviranno poi altri 25 mila anni per sentire la risposta- 50 mila anni in tutto, decisamente troppi. “Ora trasmettiamo dalla Norvegia in direzione di una stella distante 12 anni luce, la stella di Luyten, che ha un esopianeta in orbita nella sua fascia di abitabilità: chissà, lì forse c’è vita intelligente. In questo caso, lo sapremo nel giro di appena 24 anni”, dice Vakoch. Inoltre, i messaggi lanciati ora non sono “una tantum”, ma vengono ripetuti varie volte, secondo una sequenza ricorrente-prima dopo 24 ore, poi dopo 48 e via dicendo…Esattamente come gli astronomi terrestri si aspettano che faccia un segnale proveniente dallo spazio per ipotizzare che sia qualcosa di artificiale.
Ma la stella di Luyten non è l’unico bersaglio del METI. Conferma il presidente: “Penso che la strategia migliore sia quella di iniziare con le stelle più vicine e poi spostarsi verso l’esterno. E la maggior parte di quelle più vicine sono minuscole stelle chiamate nane rosse, molto più deboli della nostra stella”. Oggi sappiamo che ognuna di esse ha almeno un pianeta che per avere abbastanza luce e calore da una nana rossa deve avere un’orbita molto ravvicinata. Ma molto probabilmente, quei mondi sono in rotazione sincrona, ovvero mostrano sempre la stessa faccia al loro sole (proprio come fa la Luna ruotando attorno alla Terra). “La buona notizia è che siamo diventati molto più ottimisti sul fatto che anche su un pianeta bloccato potrebbe esserci sufficiente distribuzione del calore negli oceani e nell’atmosfera in modo che non venga semplicemente bruciato da un lato e congelato dall’altro”, sostiene Douglas Vakoch.
Il nuovo METI continua, ovviamente, a pensare e comunicare in termini matematici- la lingua universale- ma facendo un passo indietro ha recuperato anche il linguaggio naturale. Certo, gli Alieni non parlano inglese o tedesco, ma potrebbero essere in grado di riconoscere e comprende quelle strutture-base che sono comuni a tutte le lingue della Terra. Inclusa la lingua dei segni. Anche se- ricorda Vakoch- il messaggio potrebbe arrivare a ET privi di vista oppure senza udito e con altre caratteristiche sensoriali: lo sforzo anche ideale di entrare in comunicazione con creature di altri mondi ci mette di fronte a una serie di complesse implicazioni e ci costringe a ripensare il nostro modo di considerare il tempo e lo spazio. Resta poi l’interrogativo fondamentale: ma non sarà rischioso inviare messaggi a degli sconosciuti? E se chi raccoglie le informazioni che mandiamo nel cosmo fosse male intenzionato, che ne sarà di noi?
Bè, dice Vakoch, rassegniamoci: gli Alieni tecnologicamente avanzati non hanno bisogno del METI per sapere della nostra esistenza. “Perché se c’è qualcuno là fuori, allora sa che siamo qui anche prima dei nostri segnali radio: hanno avuto 2 miliardi di anni per sapere che c’è una vita complessa sul nostro pianeta a causa dei cambiamenti nella nostra atmosfera. Questo è un tipo di tecnologia che avremo anche noi, perché entro 20 anni saremo in grado di rilevare le atmosfere indicative della vita”, assicura. “Quindi non sarà una sorpresa per gli Alieni. Allora, qual è il punto? Lo scopo di METI non è quello di far sapere agli Extraterrestri che siamo qui, ma è dare una risposta alla domanda che il fisico italiano Enrico Fermi ha posto nel 1950: se gli Alieni esistono, dove sono?” Insomma, il fine è instaurare un contatto. Ma per farlo, dobbiamo armarci di tanta pazienza.
Il direttore del METI ne è consapevole: “Non mi aspetto una risposta da Luyten, ma se ripetiamo quell’esperimento cento o mille o un milione di volte, abbiamo una possibilità realistica. Penso che la sfida più grande da affrontare sia quella di rimmaginare noi stessi come una specie disposta ad assumersi questo compito di comunicare con altre civiltà longeve tuttora esistenti. È come se nella storia di 13 miliardi di anni della galassia ci fossero due lucciole che si accendono ciascuna per un singolo momento nel corso della notte. Quali sono le possibilità che accada esattamente nello stesso momento? Praticamente zero. Quindi l’unico modo per entrare in contatto è se le altre civiltà hanno una vita molto più lunga di noi. Questo è ciò che dobbiamo presumere quando iniziamo a cercare, trasmettere e ascoltare“. Naturalmente, potremmo non ricevere mai segnali di risposta, ma anche in questo caso per Vakoch non sarebbe un fallimento; “Tra migliaia di anni, anche se non avremo trovato nessuno là fuori, ci accorgeremo di essere diventati noi quella civiltà longeva che stavamo cercando da sempre”.