Seguaci di culti neopagani, aspiranti streghe Wicca, amanti della tradizione celtica, tanti curiosi. È una folla variegata, quella che anche quest’anno attenderà l’alba tra i megaliti di Stonehenge, cantando e ballando al sorgere del sole nel giorno del solstizio di estate, ripetendo un rito forse antico di millenni.
Dopo decenni di studi, di scavi, di analisi, ancora non si comprende il vero scopo di questo straordinario sito archeologico, situato a pochi chilometri da Salisbury e dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1986. Quei cerchi concentrici formati da pietre squadrate pesanti svariate tonnellate ciascuna sono stati oggetto di una ridda di ipotesi. L’ultima è quella proposta da due ricercatori del Royal College of Art di Londra: Stonehenge sarebbe stato una sorta di gigantesco carillon preistorico.
Il punto di partenza sono state la rocce che compongono il cerchio più interno e che in inglese sono chiamate “bluestones”. Esse provengono da una zona particolare, Preseli Hills, nel Galles, distante dalla piana di Salisbury circa 250 chilometri: gli antichi costruttori compirono un’impresa non da poco, nel trasportare quei massi pesantissimi per un tragitto tanto lungo, specie con la tecnologia in uso oltre 4 mila anni fa.
“La gente si chiede: perché le hanno portate fino a Stonehenge? In fondo, le rocce sono ovunque attorno al sito, non è necessario trainarle per 160 miglia”, ha detto al New York Times Paul Devereux, uno degli autori dello studio ed editore della rivista che lo ha pubblicato, Time and Mind: The Journal of Archaeology, Consciousness and Culture (“Tempo e Mente: il giornale di Archeologia, Coscienza e Cultura”).
Il motivo poteva nascondersi in una particolare caratteristica che rendeva quei monoliti speciali, ovvero nelle loro insolite proprietà acustiche. L’idea è venuta a Devereux e al collega Jon Wozencroft mentre si trovavano su quelle colline del Pembrokeshire, alla ricerca dei suoni dell’antichità. In quanto docenti di arte, volevano spiegare agli studenti ciò che gli occhi e le orecchie dell’ Età della Pietra potevano a quel tempo percepire.
In alcune aree, hanno in effetti trovato la diabase ( dolerite nel mondo anglosassone), un tipo di roccia di origine magmatica, grigia o nera, in grado- se percossa- di emettere suoni metallici, simili a quelli di una campana. Anche le bluestones di Stonehenge sono diabasi. La scorsa estate, i due ricercatori hanno così ottenuto il permesso di sottoporre a test acustici le pietre collocate nel sito archeologico, per verificare se possedessero le stesse caratteristiche.
Non avevano alte aspettative, perché quei megaliti sono conficcati nel terreno e molti di loro- dopo il restauro iniziato ai primi del ‘900- ora sono praticamente cementati. “Ci deve essere un po’ di spazio attorno, perché si produca questo effetto di risonanza”, ha spiegato Devereux. Eppure, vari lastroni hanno prodotto il suono tipico di una campana. Alcuni mostravano anche i segni di colpi ricevuti in passato. Insomma, veri e propri litofoni- strumenti a percussione fatti di pietra.
Da qui, la loro teoria: Stonehenge serviva per produrre musica o almeno un certo tipo di rumore, probabilmente a scopo rituale. Ma se i due istruttori d’arte sono i primi ad aver messo in relazione il sito archeologico alle particolari caratteristiche acustiche delle sue rocce, la peculiarità della diabase di Preseli non è invece una novità. In Galles c’è infatti un paesino dal nome quasi impronunciabile- Maenclochog- che significa “pietre che suonano”. E alcune chiese della zona fin dal XVIII secolo utilizzano campane ricavate da quei massi.
Non solo. In giro per il mondo, ci sono altre pietre del genere, come ad esempio in Svezia, Australia, Cina. Negli Stati Uniti, a “squillare” sono i massi di un parco nazionale, che non a caso si chiama Ringing Rock State Park, nella contea di Bucks, in Pennsylvania. Su Internet, ci sono alcuni video nei quali si può vedere- o meglio, sentire- l’effetto di un martello picchiato sui differenti sassi: un suono metallico, variabile di tonalità, ma del tutto simile al rintocco di una campana.
Si tratta, anche in questo caso, di diabasi. Il geologo Lawrence Malinconico, che ha studiato a lungo queste singolari pietre, ritiene che a renderle così musicali sia una particolare combinazione di composizione e densità. Dal punto di vista chimico, le rocce sono formate prevalentemente da ferro e magnesio e sono rimaste almeno 200 milioni di anni nel sottosuolo prima di emergere in superficie. “Nella fase di raffreddamento, il processo assomiglia alla forgiatura di una campana di ghisa“, ha spiegato.
Secondo gli antropologi, in epoche antiche, luoghi come questo erano ritenuti magici e dotati di poteri di guarigione. Nell’antica Cina, si riteneva che le rocce sonanti- chiamate bayinshi– contenessero il principio vitale C’hi. In India, sono stati ritrovati esempi di arte rupestre incisi proprio su pietre con proprietà acustiche e le stesse venivano utilizzate dai Nativi americani per i loro rituali sciamanici.
Dunque non dovrebbe sorprendere trovare dei litofoni anche a Stonehenge, da molti ritenuto un luogo di culto oltre che una sorta di osservatorio astronomico ante litteram. Anzi, la presenza di queste pietre sonore potrebbe confermare l’ipotesi sostenuta con forza dall’archeologo Timothy Darvill, dell’Università di Bournemouth, in base alla quale il sito britannico sarebbe stato il corrispettivo preistorico dei luoghi di pellegrinaggio attuali, dove i malati invocano la guarigione: insomma, Stonehenge era la Lourdes dell’Età della pietra.
Sapere che questi megaliti collocati dai nostri antenati nella piana di Salisbury fossero in grado di produrre una qualche forma di musica tuttavia non aiuta a risolvere il mistero della vera origine e del vero scopo di questo luogo tanto suggestivo. Ne è consapevole anche Paul Devereux. Il ricercatore però si augura che la sua scoperta possa incoraggiare gli archeologi a prendere in considerazione non solo ciò che gli antichi osservavano o facevano, ma anche ciò che ascoltavano. “Finora abbiamo visto il film della preistoria muto. Noi stiamo provando a recuperare la colonna sonora.”
SABRINA PIERAGOSTINI
diabase