Affermare che esistano forme di vita intelligente, da qualche parte attorno a noi, non è più un tabù. Lo si può dire, senza timore di passare per visionari. Anzi, sta diventando l’ultima, stimolante frontiera della ricerca scientifica, quella che più di altre appassionano ed impegnano i centri astronomici di tutto il mondo. L’ultimo studio del settore arriva dall’Università delle Hawaii: qui un team ha elaborato un nuovo modello computerizzato per individuare quale sia, nella nostra galassia, l’area più adatta a rintracciare civiltà extraterrestri.
Come è ben noto, infatti, in tanti anni di analisi dell’Universo, finora i radiotelescopi- dal progetto Seti al più recente Keplero– non hanno scoperto alcunché. Forse- incominciano a dubitare anche gli esperti- perché hanno scandagliato nella parte sbagliata. Ma come distinguere com’è e dov’è quella giusta? Il primo passo fondamentale è capire quali siano i requisiti indispensabili a supportare la vita ed a consentire l’evoluzione da forme primordiali ad altre più avanzate. Il problema è che l’unico pianeta sul quale possiamo formulare delle ipotesi è solo il nostro. Non abbiamo altre pietre di paragone. E questo rende i nostri modelli interpretativi quanto meno parziali ed incompleti.
Ad esempio, allo stadio attuale, gli scienziati ritengono che i fattori indispensabili per la vita siano la presenza di carbonio, ossigeno e azoto- elementi che compongono i pianeti rocciosi come la Terra. Essenziale è poi la presenza di una stella. Ma non una qualsiasi: deve essere stabile da svariati miliardi di anni. Una che collassa e che esplode- come una supernova- ovviamente non è la candidata ideale. E deve poi trovarsi alla giusta distanza. “Né troppo lontana, né troppo vicina”, dicono con una ovvietà quasi lapalissiana i ricercatori: è quella che viene definita, in altri termini, “la zona di abitabilità”, ovvero l’area nel quale l’acqua presente su un pianeta rimane allo stato liquido, senza vaporizzarsi per l’eccessivo calore o ghiacciarsi per la totale mancanza di esso.
Tenendo in debita considerazione queste ed altre variabili, l’equipe hawaiana guidata dal professor Michael Gowanlock ha dunque cercato di capire dove, nella Via Lattea, possano sussistere le condizioni migliori per permettere alla vita di svilupparsi e di evolvere. Hanno così creato un modello tridimensionale per stimare la “zona di abitabilità” in funzione della distanza dal centro della galassia stessa.
Studi precedenti avevano portato avanti l’idea che l’area più adatta alla vita fosse molto ristretta: una sorta di anello, dal diametro di 6mila anni-luce, posto più o meno a metà strada tra il nucleo della Via Lattea e il suo bordo esterno. Escludevano dunque tutti i pianeti troppo vicini al centro – perché si pensava che venendo irradiati da stelle instabili come le supernove ne risultassero come “sterilizzati”- ma anche tutta la zona periferica, in quanto scarsamente dotata di quegli elementi pesanti che permettono la formazione dei pianeti stessi. I seguaci di questa teoria, insomma, sostenevano che pianeti come la Terra siano rarissimi e quindi ancora più rara è la possibilità che uno di essi risulti abitato.
Ma gli studi più recenti hanno smentito quest’ipotesi di lavoro. Da un lato hanno dimostrato che il nucleo centrale della galassia potrebbe ospitare miliardi di pianeti e dall’altro che l’irradiazione di una supernova non pregiudica, a priori, la formazione della vita che può comunque svilupparsi in uno stadio successivo. Come è accaduto per la Terra: inabitabile e devastata per milioni di anni dal bombardamento di asteroidi. Ma poi, 3.7 miliardi di anni fa, la vita è comunque sbocciata e non si è più fermata.
Il team di Michael Gowanlock ha così stimato che, in generale, attorno all’1.2 per cento delle stelle della Via Lattea orbitino pianeti adatti alla vita evoluta– quindi non microbi o affini, ma esseri intelligenti. Tradotto in cifre, significa circa un miliardo di mondi possibili. Di più: hanno calcolato che nel centro della galassia si concentra il numero maggiore di pianeti con simili caratteristiche: sono il 2.7 per cento del totale. E senza giri di parole, i ricercatori dell’Università americana affermano che bisogna cercare lì, nel cuore della galassia, per trovare altre civiltà.
Magari proprio in direzione della costellazione del Sagittario. E’ il punto da dove, il 15 agosto 1977, pervenne un segnale rimasto misterioso: per un lunghissimo, interminabile minuto, fu registrata un’anomala trasmissione di onde radio che rimase un “unicum” nella storia dell’astronomia. Tanto che chi era all’ascolto all’epoca non potè fare a meno di aggiungere a penna un “Wow!” accanto alla trascrizione del segnale, per esprimere tutto il proprio stupore… In seguito, però, non è stato mai più captato nulla del genere e tuttora gli astronomi non sanno cosa l’abbia prodotto 34 anni fa.
La trascrizione del cosiddetto "Wow signal"
Era il messaggio inviato dagli abitanti di un mondo lontano? Fino ad oggi, nessuno degli scienziati si è mai sbilanciato al punto da affermarlo in pubblico. Ma se davvero- come questa ultima ricerca sembra dimostrare- nel centro della galassia si trovano milioni di pianeti potenzialmente identici al nostro, questa eventualità non può più essere scartata. Forse altre civiltà, esattamente come facciamo noi, si stanno interrogando sull’esistenza di altre forme di vita intelligente nella galassia ed inviano segnali nello spazio per cercare un contatto con gli Alieni- in questo caso, i Terrestri.