Quasi estinti. Centomila anni fa, l’umanità ha rischiato di fare la fine dei dinosauri e dei Dodo: ovvero di sparire per sempre come specie dalla faccia della Terra. All’epoca, infatti, sarebbero esistiti solo 5mila/10mila esseri umani. Un numero estremamente esiguo di individui stanziati in Africa che da lì a poche migliaia di anni sarebbero poi aumentati arrivando in ogni angolo del globo, soppiantando per sempre tutti gli altri ominidi che invece scomparvero.
Insomma, tutti noi siamo gli eredi di quel manipolo di antenati scampati allo sterminio prodotto dai nemici invisibili, ma tenaci e quasi imbattibili: i batteri. Chi sopravvisse a quella durissima battaglia, lo fece grazie ad una serie di caratteristiche genetiche nuove che tuttora noi possediamo e che condiziona le nostre reazioni alle malattie infettive. È quanto afferma una ricerca appena pubblicata sulla rivista scientifica “Pnas”.
Allo studio, coordinato dalla Scuola di Medicina dell’Università della California, hanno preso parte anche alcuni ricercatori italiani del Dipartimento di Biologia evoluzionistica dell’Università di Bologna e dell’Istituto di Tecnologie biomediche del Cnr di Milano. Secondo gli scienziati, l’inibizione di due specifici geni legati al sistema immunitario avrebbe garantito una miglior protezione ad alcuni gruppi patogeni, come l’Escherichia Coli K1 e lo Steptococco B, responsabili di sepsi e meningite nei neonati.
I due geni, non più funzionali negli uomini di oggi, ovvero il Siglec 13 e il Sigleg 17, erano attivi invece nei nostri predecessori, come lo sono tuttora nei primati, e sarebbero stati i principali obiettivi dei batteri patogeni ad alto rischio di mortalità. Chi ne era privo, per una mutazione genetica, risultava così meno vulnerabile agli attacchi batterici.
“In una popolazione ristretta, una singola mutazione può avere un grande effetto” spiega David Caramelli, associato di Antropologia a Bologna. “La sopravvivenza della specie può essere stata legata all’eliminazione delle proteine target degli agenti patogeni. Le nostre analisi suggeriscono che i due geni si ‘spensero’ in alcuni individui tra i 440mila e i 270mila anni fa, prima che i nostri antenati si separassero dai loro ‘cugini’, i Neanderthaliani e i Denisoviani. Ma ci volle tempo prima che il cambiamento si diffondesse tra i primi umani.”
Una volta però che la nuova caratteristica genetica si è affermata tra i nostri predecessori, essa ha permesso loro di resistere con maggior efficacia agli attacchi dei batteri. “In quella lunga fase- spiega ancora il professor Caramelli- ci fu una vera e propria decimazione della popolazione dovuta alle infezioni. Solo coloro che avevano nel loro Dna quella particolare mutazione sopravvissero, trasmettendola ai loro eredi.” Cioè, noi.
Anche questa ricerca, ovviamente, riconosce che le cause della scomparsa degli altri rami paralleli di ominidi fu causata da una serie di concause, ma l’elemento genetico a quanto pare fu predominante. Le analisi sono state compiute sui resti di un Homo Neanderthalensis già piuttosto noto, denominato MLS3 e ritrovato a Riparo Mezzena, nel veronese. Grazie a questo fossile, siamo stati in grado di capire anche l’aspetto dei Neanderthaliani: avevano occhi chiari e capelli rossi.
SABRINA PIERAGOSTINI