Il ghepardo è l’animale più veloce del pianeta. Veloce, velocissimo anche nella sua corsa verso l’estinzione. Secondo le ultime stime, in libertà ne esistono poco più di 7 mila esemplari, quasi tutti concentrati in 6 paesi africani. In Asia, dove prima era diffuso, ne restano solo 50, tutti in Iran. Di questo passo, entro pochi anni, anche il ghepardo entrerà nella lista nera delle creature fatte sparire dalla più spietata e crudele delle specie: gli esseri umani.
Ormai è stato coniato anche un nuovo termine per indicare l’era geologica in cui viviamo, un’ era fortemente caratterizzata- nel bene e soprattutto nel male- dall’Uomo: gli scienziati la chiamano Antropocene. Da quando l’Homo Sapiens ha preso il sopravvento sul resto del creato, si calcola che siano andati perduti i due terzi delle specie viventi della Terra. Lo dice l’ultimo rapporto del Living Planet Index. Le abbiamo cacciate e mangiate oppure abbiamo inquinato e devastato il loro habitat. In ogni caso, non esistono più. E molte altre- come per l’appunto i ghepardi- lo faranno presto.
Ma come l’uomo distrugge, l’uomo può risolvere. Ecco perché negli ultimi anni si sta iniziando a parlare di “de-estinzione”, un concetto che include l’attivazione di un processo inverso mirato a riportare alla vita le specie scomparse. Un’idea apparentemente fantascientifica e che invece è più realistica di quanto non si pensi. L’importante è togliersi dalla mente immagini di Velociraptor o Tirannosaurus Rex che scorrazzano qua e là nelle foreste: “Jurassic Park”, per fortuna, non è nei progetti.
Piuttosto che far risorgere terribili predatori di epoche remotissime, l’obiettivo è ridare vita agli animali la cui presenza è importante per l’ecosistema e per la biodiversità del pianeta. Le nuove tecniche di editing genetico lo rendono possibile, anche in tempi brevi. Tanto che i ricercatori dell’Università della California a Santa Barbara hanno pubblicato le linee-guida da seguire per scegliere quali specie estinte sarebbe meglio – per noi e per il pianeta- reintrodurre in natura.
Una delle indicazioni principali consiste nel concentrarsi su animali scomparsi di recente, piuttosto che quelli spariti da tempo immemore. Ecco perché i dinosauri non sono in agenda. E poi, ancora, lavorare solo su quelle specie che possono essere ripristinate in abbondanza, in modo da poter influire sull’ambiente. Tra i candidati in testa all’elenco, compaiono i mammut. Gli ultimi esemplari si sono estinti in epoche storiche- verso il 4 mila a.C. Questa specie di pachidermi lanosi potrebbe aiutare convertire la tundra artica in pascoli favorendo una lenta modifica del clima.
Recuperare delle sequenze genetiche dalla carcasse di mammut trovate nel permafrost non è difficile, spiega il sito Futurism.com. I genetisti ne hanno già prelevate nelle orecchie, nel grasso sottocutaneo o dai lunghi peli. Una volta selezionati e trattati, questi geni antichi sono stati impianti nelle cellule epiteliali di elefante. Questo tessuto di coltura rappresenta il primo passo per riavere il DNA del mammut. Ma oltre all’editing genetico, si può anche procedere tramite la clonazione.
“Possiamo utilizzare davvero questi strumenti per la conservazione delle specie?”, si è chiesto uno degli autori delle linee-guida, l’ecologo Douglas McCauley. “La risposta a questa domanda richiede molti punti di vista, non solo dei genetisti che stanno conducendo gli esperimenti, ma anche di altri tipi di ricercatori- ecologi, biologi, addetti all’ecosistema.” Il processo però, sembra già ben avviato.
Secondo il sito Newscientist.com, non sarà il 2017 a vedere il primo mammut redivivo, ma il 2018. Per questa data è già stato fissato il primo tentativo di inserire il suo DNA negli ovuli del parente più prossimo tuttora in vita, l’elefante asiatico. Insomma, se Jurassic Park rimarrà solo uno sogno cinematografico, Pleistocene Park potrebbe invece essere un sogno più realistico. Forse potremmo presto vedere con i nostri occhi gli eroi dell’Era Glaciale- in carne ed ossa.
SABRINA PIERAGOSTINI