Un drone che vola nei cieli densi di metano di Titano, una sonda che esplora i mari ghiacciati di Europa per cercare forme di vita: scene che oggi possiamo solo immaginare, ma che nei prossimi decenni potrebbero essere realtà. Inviare sulle lune di Saturno e di Giove una missione equipaggiata con strumentazioni in grado di rilevare segni di attività biologica è uno dei progetti all’esame degli astrobiologi della NASA. Ma la tecnologia richiesta è molto complessa- non tanto quella necessaria per spedire le nostre navicelle spaziali fin là, quanto quella per stabilire la presenza di esseri viventi.
LA LUNA DI SATURNO, TITANO
Per riconoscere la vita, bisogna infatti sapere cosa significhi, realmente, essere vivi. Un concetto- lo abbiamo spiegato in un precedente articolo- sul quale non c’è un’ opinione condivisa, ma riguardo al quale esistono decine di possibili definizioni. E diventa ancora più difficile riconoscere un organismo vivente quando si trova in un ambiente molto diverso da quello terrestre e con caratteristiche sconosciute. Gli studiosi, per individuarlo, fanno affidamento sulle cosiddette “biofirme” evidenziabili con semplici analisi. Magari, individuando il DNA che immagazzina e trasmette le informazioni vitali da un organismo alla sua progenie.
I nucleotidi (le molecole che lo formano) sono composti da un gruppo fosfato, da uno zucchero e da una base azotata – adenina, citosina, guanina o timina. Il polimero organico risultante si presenta avvolto in una doppia elica- in termini scientifici, viene definita una doppia catena antiparallela, orientata, complementare e spiralizzata. Così è il DNA di tutte le forme viventi della Terra. Ma recenti esperimenti indicano che non è l’unico modello in grado di funzionare. Uno studio pubblicato sulla rivista Science qualche mese fa ha dimostrato che si possono combinare più delle solite quattro basi A,C,G e T. Quante? Persino dodici, sulla carta, anche se l’esperimento si è fermato a 8.
LA DOPPIA ELICA DI UN DNA TERRESTRE
Il gruppo di lavoro promosso da Steve Benner, ideatore della Fondazione per l’Evoluzione Molecolare Applicata dell’Università della Florida, grazie anche ad un contributo della NASA da quasi 5 milioni di dollari, ha realizzato un DNA sintetico composto da otto nucleotidi in grado di archiviare, copiare e assemblare le informazioni. Lo hanno chiamato “DNA hachimoji” (parola che in giapponese significa “otto lettere”) e presenta le caratteristiche strutturali necessarie a sostenere un’evoluzione di tipo darwiniano. Questi polimeri sintetici variano rispetto al patrimonio genetico standard, ma senza stravolgerlo. I biologi si domandano quanto invece potrebbe essere diverso un vero DNA alieno, formato da lettere di un alfabeto a noi ignoto– magari piatto, bidimensionale, o chissà cos’altro.
Come riporta un articolo pubblicato dal sito online della tv americana CNBC, la NASA sta ora valutando se finanziare la nuova proposta di Benner che prevede un approccio molto più ampio alla questione. L’obiettivo del suo team di ricerca è costruire un dispositivo che cerchi molecole con tratti teoricamente essenziali per qualsiasi struttura genetica. Innanzitutto, la molecola dovrebbe essere lunga, così da poter contenere sufficienti informazioni codificanti. In secondo luogo, dovrebbe essere abbastanza complessa e non simmetrica. Terzo, la sua struttura dovrebbe presentare cariche ripetute, sia positive che negative. Il DNA mantiene la sua rigida forma a doppia elica perché ha bordi carichi negativamente che si respingono. Altrimenti potrebbe piegarsi e impigliarsi. E anche il DNA alieno dovrebbe seguire questo archetipo generale.
IL DNA HACHIMOJI CREATO IN LABORATORIO CON 8 BASI ANZICHÉ 4
Lo strumento chiamato “rilevamento della vita universale” avrebbe dimensioni ridotte (non più grande di un “lunchbox”- ossia come un portavivande) e potrebbe essere incorporato in una sonda spedita ad esaminare gli oceani di Europa o il ghiaccio su Marte: attirerebbe le lunghe molecole caricate positivamente su una piastra e quelle caricate negativamente su un’altra, utilizzando poi fasci di luce per misurare la complessità delle molecole. Un test semplice, in grado di rilevare qualsiasi forma di vita microbica, purché abbia una sorta di codice genetico biologico affine al DNA.
Questo però è solo uno dei progetti volti ad individuare la biologia aliena. Nel 2018 l’ente spaziale americano ha assegnato a Goeppert, una start-up di nanotecnologia con sede in Pennsylvania, una sovvenzione di 125 mila dollari per lo sviluppo di un dispositivo in grado di analizzare le dimensioni e la forma di potenziali biomolecole. Questo tipo di esperimento potrebbe integrare la macchina universale concepita da Benner, afferma Kathryn Bywaters, una ricercatrice che lavora al centro Ames della NASA: «Non credo che un qualsiasi strumento di rilevazione della vita possa essere definitivo. Avremo una serie di strumenti alla ricerca di più prove differenti».
Un approccio però non condiviso dall’intera comunità di astrobiologi, proprio perchè- come dicevamo- è lo stesso concetto di vita a dividere e a non avere, ancora, una definizione univoca. Non tutti, ad esempio, sono d’accordo sul fatto che è vita ciò che si evolve- una visione darwiniana valida sulla Terra, ma altrove? È questa l’obiezione di Carol Cleland, filosofa e direttrice del Centro per lo Studio delle Origini dell’Università del Colorado. Pur considerando gli sforzi per individuare le molecole lunghe e cariche come un buon punto di partenza, invita ad avere una visione ancora più aperta e a prendere in esame fenomeni che vadano al di là della semplice caratterizzazione biologica o fisica.
GIOVE VISTO DALLA SUPERFICIE DI EUROPA
Cita così un caso famoso, quello della sonda Viking che, inviata su Marte negli anni ’70 del secolo scorso, segnalò tracce di respirazione microbiotica. I dati erano simili a quelli prodotti da test condotti nel suolo terrestre, ma i ricercatori cassarono questi risultati- definendoli errati- perché non c’era la prova di molecole organiche. Per la Cleland, prevalse un pregiudizio: Viking doveva aver sbagliato perché la sua rilevazione non si adattava alla definizione prevalente di vita. Invece, dice la filosofa, casi così imbarazzanti possono indicare le direzione in cui cercare una biologia totalmente nuova. Trovare la risposta alla domanda “siamo soli nell’Universo?” richiede tempo e fatica. E sicuramente, anche un grande sforzo di immaginazione.