Il mondo cambia velocemente e sembrano azzerarsi confini e barriere- anche nella conoscenza. Capitano così sempre più spesso invasioni di campo da parte di ricercatori apparentemente su posizioni antitetiche. Accade quando i fisici congetturano di vibrazione della materia o di altre dimensioni, come un tempo facevano i metafisici, oppure quando la medicina si mette alla ricerca dell’anima, rubando la scena alla religione.
Da millenni, le varie professioni di fede hanno sostenuto l’immortalità di quella parte insondabile dell’essere umano che ne costituisce l’essenza e il cui destino- una volta separato dal corpo materiale- diverge a seconda del credo. Ma in ogni caso, continuerebbe a vivere di vita propria anche dopo la morte. Da qualche anno a questa parte, la scienza ha intrapreso una serie di studi volti a dimostrare la fondatezza o meno di una simile affermazione.
Oggetto di analisi, sono state le cosiddette Esperienze di Pre Morte (Near Death Experience in inglese, in una sigla NDE), ovvero i racconti di coloro che sono rimasti privi di parametri vitali per alcuni minuti e poi sono stati rianimati. Molti di loro- indipendentemente dalla cultura, dalla fede, dalla posizione sociale- hanno riferito un’esperienza molto simile che sembra testimoniare l’esistenza di un Aldilà.
Si sono sentiti trascinare in un tunnel di luce, intensa, quasi solida, e sono arrivati in un luogo idilliaco pieno di amore. Hanno incontrato i loro cari defunti, oppure hanno visto Esseri superiori. Alcuni affermano di aver rivissuto, in pochi istanti, tutti i momenti salienti della propria vita. Elemento molto frequente è poi la sensazione di separazione dal corpo: chi vive una NDE, riferisce spesso di essersi visto, dall’alto, mentre i medici tentavano di salvarlo o i famigliari si disperavano attorno al corpo esanime.
Semplici allucinazioni, prodotte per effetto delle endorfine in un cervello sotto stress e senza ossigeno: questa la spiegazione più ricorrente utilizzata da neurologi e rianimatori. Ma non mancano ricercatori contro corrente, che ritengono invece che quelle esperienze siano reali. Uno degli studi più ampi mai realizzati in ambito scientifico è giunto alla conclusione che circa un paziente su 5 vittima di un infarto sperimenta una NDE. Ma soprattutto, ha stabilito che nessuna spiegazione medica conosciuta è in grado di giustificare quelle sensazioni.
Il team guidato dal dottor Pim Van Lommel, dell’ospedale olandese Rijnstate di Arnhem, ha studiato i casi di 344 persone sopravvissute ad un arresto cardiaco e dichiarate clinicamente morte prima di essere rianimate. Di questi, 62 hanno raccontato di aver vissuto una NDE. Per 41 di loro, si è trattato di un’ esperienza profonda, in uno stato di coscienza molto particolare che ha incluso la sensazione di trovarsi fuori dal proprio corpo, la vista di un tunnel e di una grande luce, l’incontro con i parenti morti, in un clima di grande serenità.
“La nostra ricerca mostra che fattori medici non possono spiegare l’insorgenza di una NDE: sebbene tutti i pazienti esaminati fossero stati dichiarati clinicamente morti, non tutti hanno sperimentato esperienze di premorte. Se a provocarle fossero semplici fattori fisiologici, dovrebbero verificarsi nella maggior parte dei pazienti”, si legge nell’articolo pubblicato nel 2001 dalla prestigiosa rivista Lancet. Uno studio che ha rivoluzionato l’approccio della scienza a questo tipo di fenomeno.
“È stato molto importante, perchè ha fatto conoscere meglio la condizione umana alla fine della vita, cosa sempre ignorata dalla comunità scientifica fino ad allora”, ha confermato Sam Parnia, anche lui tra i pionieri di questo genere di ricerche. Professore di Medicina dell’Università di Stato di New York, presso il Stony Brook Medical Centre, e fondatore del Consciousness Research Group dell’Università di Southampton, da anni il Dottor Parnia si sta interrogando su cosa accada al momento della morte. E le sue risposte hanno contribuito a scardinare le opinioni comuni.
“In passato, si riteneva che la coscienza terminasse quando il cervello smetteva di funzionare. Invece deve avere una qualche forma di esistenza indipendente. Ed è anche molto significativo che le persone soggette ad un’esperienza fuori dal corpo abbiano poi meno paura di morire. Prima si pensava che il fatto stesso di essere prossimi alla morte provocasse questi sentimenti e invece ciò non capita tra coloro che non hanno provato una NDE “, ha affermato.
Nei suoi libri, nelle sue interviste, nei suoi dibattiti pubblici, Sam Parnia insiste molto sulla necessità di approfondire gli studi sul cervello in un ambito multidisciplinare. “Il significato principale delle Esperienze di Pre Morte si trova nella comprensione del rapporto tra mente e cervello, uno dei punti cardini del dibattito attuale della filosofia, della psicologia e della neuroscienza”.
Posizioni, le sue, che trovano molta resistenza nel mondo scientifico e molti critici. “Le NDE sono solo false memorie che alcune persone hanno sviluppato sulla base della cosiddetta imagination inflation, con la quale un soggetto fa propri i dettagli di un’esperienza come se l’avesse davvero vissuta”, sostiene ad esempio lo psicologo Christopher French, docente del Goldsmith College di Londra.
Ma può un cervello spento, privo di attività elettrica, come quello di chi viene dichiarato clinicamente morto, avere allucinazioni o costruire false memorie? Per il medico dello Stony Brook, no. Con l’arresto cardiaco, il flusso sanguigno si ferma. E senza sangue non c’è attività cerebrale: l’encefalogramma è piatto. Eppure, molti soggetti raccontano, in modo preciso, quello che è successo durante la rianimazione. Descrivono con esattezza come erano vestiti i medici, riferiscono dettagli delle loro conversazioni.
“Il punto è che sappiamo molto poco, da un punto di vista scientifico, dell’ esperienza soggettiva della morte, della natura della mente umana e del suo esito durante la fase di morte clinica”, afferma Parnia. “Queste scoperte devono essere investigate in studi ancora più approfonditi. Se i risultati verranno replicati, ciò implicherà che la mente può continuare ad esistere dopo la morte del corpo.”
Ma ora la scienza si pone un ulteriore interrogativo e cerca di studiare anche quelle che potremmo definire “esperienze di pre vita”: ovvero le memorie e le sensazioni legate ad una vita precedente testimoniate da alcuni bambini. Anche queste- se confermate- proverebbero l’esistenza autonoma dell’anima e quindi anche la sua reincarnazione.
Una nuova ricerca sembra suggerire che i più piccoli posseggano un forte senso di una vita precedente al loro concepimento. A condurla, due docenti dell’Università di Boston che hanno analizzato le risposte di due gruppi di bimbi, provenienti da aree e culture diverse dell’Ecuador: il primo, formato da bambini nati in città; l’altro, da indigeni dell’Amazzonia della tribù Shuar.
Il risultato è stato inatteso: “I ragazzini con nozioni sul concepimento sembrano pensare di aver avuto un qualche tipo di esistenza in forma eterna, almeno per quanto riguarda desideri ed emozioni”, sostiene Natalie Emmons, psicologa ed autrice dello studio insieme alla collega Deborah Kelemen. Insomma, sembra che i più piccoli provino la profonda sensazione di essere esistiti prima che i corpi si formassero.
I campioni intervistati sono stati divisi per origine- la città, Quito, e il villaggio indigeno- e in quattro blocchi per età: dai 5 ai 6 anni, dai 7 agli 8, dai 9 ai 10, dagli 11 ai 12. A tutti sono stati mostrati tre disegni: uno raffigurava la loro mamma prima del concepimento, il secondo la mamma incinta e il terzo loro stessi da neonati. Mentre osservavano il disegno della donna non ancora in gravidanza, venivano rivolte domande specifiche su alcune loro capacità.
“Potevi provare fame? Potevi sentirti triste?”. I bimbi dovevano giustificare le loro risposte, affermative o negative. Un po’ a sorpresa, le ricercatrici hanno scoperto che i due gruppi, sia quello cittadino che quello rurale, reagivano più o meno nello stesso modo. Quasi tutti, nella fascia di età tra i 7 e gli 8 anni, hanno escluso di aver avuto capacità fisiche (come vista o udito), ma il 70% dei bambini di Quito ha affermato di aver provato emozioni durante la fase preconcepimento; opinione condivisa dal 55% del campione proveniente dalla campagna.
L’affermazione di aver provato desideri in quella fase di previta, poi, è stata condivisa dal 62% degli indigeni e dal 46 per cento dei loro pari età cittadini. “I bambini originari delle aree rurali non hanno mai dato spiegazioni spirituali, confermando che la cultura religiosa non è responsabile delle loro risposte”, scrivono le ricercatrici. “Al contrario, le loro credenze sembrano riflettere una nozione innata, radicata in una intuitiva concezione della personalità.”
Ecco la conclusione di Emmons e Kelemen: “Il risultato suggerisce che, nonostante l’opinione comune tra gli scienziati che la mente sia un prodotto del cervello, possediamo un intuitivo senso di noi stessi ben distinto dal nostro corpo. Sembra che sviluppiamo il sentimento di esistere prima che il corpo sia in essere. Da questo punto in poi, il passo è breve per ritenere che continuiamo ad esistere anche dopo che il nostro corpo è deceduto. Forse la religione si è sviluppata, in parte, per codificare queste credenze profondamente percepite.”
Basta questo studio per dimostrare l’immortalità dell’anima e la realtà di quel processo di trasmigrazione dello spirito che gli antichi chiamavano metempsicosi? Certamente no. Così come non bastano le indagini dei medici rianimatori, per quanto competenti, a dimostrare l’esistenza di una coscienza separata, indipendente rispetto alla fisicità del corpo. Ma queste ricerche segnano un piccolo, importante passo in avanti nella comprensione dell’incomprensibile.
SABRINA PIERAGOSTINI