Prima o poi succederà. Prima o poi realizzeremo il primo insediamento umano nello spazio. Lo faremo, perché il nostro pianeta non potrà reggere ancora a lungo l’aumento della popolazione che cresce a ritmi esponenziali e che sta consumando tutte le risorse non rinnovabili. Lo faremo perché solo spostando un gruppo di coloni altrove potremo garantire una possibilità di sopravvivenza alla specie umana in caso di un disastro planetario. Lo faremo, dunque. Ma dove?
CASE, ALBERI E LAGHI-RICOSTRUITI SU MARTE
Se lo è chiesto il magazine online Discover, in un articolo nel quale vengono valutate le varie alternative futuribili al vaglio degli scienziati. Al momento tutto l’interesse sembra concentrarsi su Marte. Lassù troveremo un’atmosfera ricca di anidride carbonica – convertibile in carburante e trasformabile dalle piante in ossigeno. I futuri coloni potrebbero essere autosufficienti da questo punto di vista e anche per quanto riguarda il cibo, coltivando vegetali e frutta in serre particolari, ma vivrebbero sempre al chiuso, in abitazioni pressurizzate, meglio ancora se sotterranee per proteggersi dalle radiazioni.
Decennio dopo decennio, si produrrebbe artificialmente una parziale modificazione dell’ambiente, indicata in inglese dal termine paraterraforming: in alcune limitate sezioni, il Pianeta Rosso diventerebbe sempre più simile a quello Azzurro- il nostro. Ovvero, in alcune aree si potrebbero introdurre caratteristiche terrestri creando laghi, boschi, città, sempre però all’interno di strutture ermetiche, dove mantenere un’ adeguata pressione atmosferica e ricreare un’aria adatta a noi aggiungendo ossigeno e azoto.
Costruire cupole sulla superficie marziana o caverne al di sotto di essa per consentire la sopravvivenza dei primi pionieri in una biosfera potrebbe essere un obiettivo raggiungibile nel giro di pochi anni. Cambiare l’intero aspetto di Marte, grazie all’ ingegneria planetaria che renda abitabile per gli esseri umani e per le altre forme viventi terrestri il nuovo ecosistema – processo definito terraforming– è invece un progetto molto più ambizioso che potrebbe richiedere secoli.
Per arricchire di ossigeno ed azoto l’aria al momento irrespirabile servirebbero sia microorganismi in grado di sintetizzare questi gas sia la fotosintesi clorofilliana. La temperatura si alzerebbe invece incrementando la percentuale di metano, che produce un effetto serra più intenso dell’anidride carbonica. Oppure si potrebbero seminare piante ed alghe scure, che assorbirebbero maggiormente i raggi solari. Un processo molto, molto lungo, durante il quale i primi umani-marziani continuerebbero a vivere in limitate strutture protette.
UNA SERRA PER COLTIVARE FRUTTA E VERDURA MARZIANA
Non solo. Una colonia del tutto separata dalla Terra ha bisogno di una significativa varietà genetica per evitare i rischi delle malattie ereditarie che affliggono le piccole comunità isolate. Il numero minimo si attesta sui 10 mila soggetti, ma l’ideale sarebbe di almeno 40 mila. Come far arrivare tutta quella gente su Marte? Considerando la durata del viaggio- circa 9 mesi a tratta – e sperando ottimisticamente che ogni astronave trasporti 20 passeggeri, ci vorrebbero 500 viaggi per portare fin lassù 10 mila coloni, 2000 per arrivare a quota 40 mila, il doppio per gli 80 mila abitanti che il milionario Elon Musk sogna di far insediare a partire dal 2026 .
Con un’ipotetica flotta di 25 astronavi– impegnate per quasi due anni nel viaggio di andata e ritorno- servirebbero 40/50 anni per i primi 10 mila e secoli per i complessivi 80 mila. Nel frattempo, sicuramente la tecnologia avrà sviluppato mezzi di propulsione più rapidi e i primi coloni avranno avuto figli, ma i tempi appaiono comunque lunghi. Il discorso tuttavia cambia- e di molto- se anzichè Marte scegliamo la Luna: alle stesse condizioni, potremmo portare 10 mila persone in pochi mesi, visto che il viaggio dura solo qualche giorno.
Dunque, ecco la seconda ipotesi: creare una colonia sul nostro satellite. Avrebbe sicuramente dei vantaggi, dettati proprio dalla vicinanza. Sarebbe facilmente raggiungibile in caso di emergenza; nello stesso modo, i coloni bisognosi di cure specialistiche rientrerebbero velocemente sulla Terra; se si verificasse un disastro planetario, dalla Luna la situazione potrebbe essere monitorata e potrebbe arrivare anche un aiuto concreto.
Anche in questo caso, i primi abitanti spaziali vivrebbero sotto cupole o in cavità. Un affascinante progetto prevede di utilizzare il cratere Shackeleton, al polo sud, al cui interno costruire una base ricoperta da un tetto alto 5 mila piedi e del diametro di 25 miglia. In questo punto ci sarebbe disponibilità di ghiaccio lunare- quindi, di acqua– e si sperimenterebbe l’alternanza giorno-notte, visto che il bordo è sempre illuminato, mentre il cratere è perennemente in ombra. Una squadra robotica potrebbe assemblare una città lunare in grado di ospitare 10 mila persone nel giro di 15 anni
IL CRATERE SHACKELETON, AL POLO SUD LUNARE
Altra possibilità: costruire delle colonie libere nello spazio compreso tra la Terra e il nostro satellite- insomma, delle enormi stazioni orbitanti. Si potrebbe usare il materiale scavato nel suolo lunare oppure sugli asteroidi più vicini e gli insediamenti verrebbero collocati in punti favorevoli dal punto di vista gravitazionale – i cosiddetti punti di Lagrange- nei quali l’orientamento verso la Terra e la Luna oppure verso la Terra e il Sole rimarrebbe costante. La distanza sarebbe ridotta: per il viaggio si impiegherebbero sempre pochi giorni.
Resta però un problema non trascurabile: quello della forza di gravità. Su Marte, è circa un terzo di quella terrestre: qui, un uomo di 70 chili ne peserebbe solo 26. Per evitare che le ossa perdano minerali, i futuri abitanti dovrebbero esercitarsi all’interno di grandi centrifughe ogni giorno. Ma tra gli effetti a lungo termine, oltre alla perdita di peso e alla demineralizzazione dello scheletro, compaiono anche l’atrofia muscolare, la debolezza del sistema immunitario e altre criticità delle quali, al momento, non siamo in grado di comprendere del tutto le conseguenze.
Infatti, fino a quando i primi esseri umani- quasi delle cavie– non si troveranno stabilmente sottoposti a quelle condizioni, non potremo capire cosa accada veramente al nostro corpo, anche per quanto riguarda la riproduzione. Sappiamo che lo sviluppo dell’embrione è legato alla gravità e può essere interrotto dalla perdita di peso, ma non sappiamo come possa reagire a forze di gravità inferiori rispetto a quella terrestre. Ecco perché qualcuno ha pensato ad una alternativa: Venere.
Il pianeta più vicino alla Terra presenta una gravità molto simile alla nostra, pari circa al 90%. Così simile da immaginare che lo scarto molto ridotto non incida negativamente sulla salute umana. Un grande vantaggio, che si scontra però con molti altri handicap. Per vivere lassù, dovremmo prima procedere alla terraformazione di Venere, perchè l’alta pressione e la temperatura proibitiva impedirebbero il paraterraforming.
Come fare? All’esatto opposto rispetto a Marte. In questo caso, dovrebbe essere ridotto drasticamente l’effetto serra che trattiene i raggi del Sole e rende bollente la superficie venusiana, utilizzando microorganismi termofili, estremamente resistenti al calore, e vari espedienti chimici per eliminare l’anidride carbonica e tutti gli altri gas nocivi.
L’UMANITÀ IN FUTURO VIVRÀ IN BASI SPAZIALI ORBITANTI?
Problemi che però non esisterebbero con le colonie spaziali libere: con la forma giusta e la giusta velocità di rotazione, riprodurremmo su di esse le stessa gravità sperimentata sul nostro pianeta. Eviteremmo così danni alle ossa, ai muscoli e alla salute in generale. Potrebbe essere proprio questo il futuro dell’umanità o quanto meno di una parte di essa?
Come sognato da scrittori e sceneggiatori, i nostri discendenti vivranno a due passi dal pianeta madre, ma sospesi nel vuoto cosmico. Dalle città costruite attorno alla Terra o alla Luna godranno di un panorama mozzafiato finora osservato solo dagli astronauti e dalla ISS. Ammireranno albe e tramonti mai visti. Forse da quelle case spaziali assisteranno anche al declino o alla morte del nostro pianeta- impotenti, ma almeno loro al sicuro.
SABRINA PIERAGOSTINI